Mimmo di Marzio
La grande svolta in Europa si ebbe quasi per caso, allorchè il pittore ottocentesco Felix Bracquemond, scartando gli involucri di alcune ceramiche giapponesi destinate al mercato parigino, rimase colpito dalle immaginette sinuose raffigurate sui fogli di imballaggio. Quei personaggi e quelle scene di vita facevano parte dei cosiddetti «manga» - come li aveva definiti l'autore Hokusai Katsujika - illustrazioni commissionate dagli editori del Sol Levante agli artisti dell'epoca per il mercato popolare interno. Il loro svariato utilizzo (perfino per l'imballaggio) la dice lunga sul valore allora riconosciuto a queste stampe che colpirono e influenzarono profondamente l'arte europea alla fine dell'800, e dà anche la misura della gran mole di opere andata perduta.
In una lettera scritta per uno dei suoi committenti, il maestro Kitagawa Utamaro non a caso si lamentava: «Vengo pagato peggio di una cortigiana di infimo rango». E di cortigiane ben se ne intendeva uno dei tre artisti presentati in questi giorni nelle sale di Palazzo Reale; l'unico, Utamaro, specialista nel raffigurare le bijinga, ovvero le beltà femminili che popolavano il «Mondo Fluttuante» del nuovo urbanesimo giapponese alla metà del XVII secolo e che coincise con l'ascesa di Tokyo («Edo») capitale. Utamaro, Hiroshige e, sopra tutti, Hokusai erano chiamati a raccontare i sogni e le mode di una società contemporanea che finalmente poteva abbandonarsi alla vita come momento fuggevole da assaporare e meditare: i piaceri della carne, l'ebbrezza della Natura, la ricerca del lusso e le banali attività quotidiane. Il Mondo Fluttuante, appunto, ovvero l'ukiyoe che dà il titolo al genere artistico più famoso del Sol Levante.
In duecento silografie provenienti dalla collezione dell'Honolulu Museum of Art viene egregiamente rappresentato il senso di un'arte che proprio nella stampa e nella quasi ossessiva ripetizione dei soggetti trovava la sua ragion d'essere. A dettar legge erano gli editori ed era il mercato; non tanto quello della nobiltà quanto quello di massa, e le silografie stampate ad inchiostro - prima in nero e poi policrome - erano un lusso a buon prezzo. Tra gli esempi più emblematici vi è la serie delle «Trentasei vedute del monte Fuji» di Hokusai messa in commercio nel 1830. La rappresentazione del vulcano, quale immagine simbolo per i sogni di chi non poteva viaggiare, ebbe un tale successo da costringere l'epigono Hirosige a realizzarne una propria serie, anch'essa di trentasei stampe. Altro luogo celebre che non poteva sfuggire agli artisti - e ai loro committenti - era il Tokaido, la principale via di comunicazione tra Edo (Tokyo) e l'antica capitale Kyoto, un'arteria densa di traffici di uomini, animali e cose popolata di locande, luoghi di ristoro, case da tè e di piacere. Stavolta, come testimonia la mostra di Milano, Hiroshige riuscì addirittura a superare il maestro con il suo ciclo delle «Cinquantatrè stazioni di posta del Tokaido».
Un capitolo a parte va alla celebre «Grande Onda» con cui Hokusai volle rappresentare la drammaticità della natura e la vulnerabilità umana. L'icona venne riproposta dagli stampatori in molteplici versioni e, con meno successo, anche da Hiroshige. L'ultimo fu Andy Warhol.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.