Appena vennero pubblicati dalla rivista statunitense Artforum, nel giugno del 1967, i Paragrafi sull'arte concettuale di Sol Le Witt divennero il manifesto di una nuova tendenza espressiva. In quello scritto, quasi immediatamente tradotto e stampato in Italia da Flash Art, il pittore di ascendenza minimalista teorizzava una forma d'arte che, al fine di «rendersi mentalmente interessante per lo spettatore», sceglieva di «diventare arida sul piano emotivo», guardava «all'esecuzione dell'opera come a un fatto meccanico» e cercava di «liberarsi dalla dipendenza dall'abilità dell'artista, inteso come artigiano». Affermazioni come queste, che quarantacinque anni fa risultavano giustamente provocatorie, appaiono oggi come stanchi cliché, ricalcati da molti giovani artisti in carriera. Negli ultimi due decenni la tendenza concettuale è diventata accademia, mentre la ricerca sulle caratteristiche artigianali dell'opera, già praticata dalla pittura degli anni Ottanta, si è trasformata in un'opzione di rottura, di rifiuto degli stereotipi imposti dal trend dominante.
«Homo Faber, il ritorno del fare nell'arte contemporanea» - la mostra a cura di Mimmo Di Marzio in collaborazione con Nicoletta Castellaneta che si inaugurerà mercoledì al Castello Sforzesco con il patrocinio dell'assessorato alla Cultura del Comune di Milano - parte da qui, da questo capovolgimento tra posizioni, ne suggerisce le origini e soprattutto ne descrive gli sviluppi in corso.
Già nel gruppo dell'Arte Povera, che è stato letto dalla critica come una variante italiana del concettualismo anglosassone, figure di spicco come Alighiero Boetti - presente in mostra con Alternando da 1 a 100 e viceversa, un'opera tessuta su disegno kilim del 1993 - non disdegna affatto la peculiarità artigianale delle sue creazioni, alla quale sono in parte dovuti i loro recenti picchi di mercato. Un compagno di strada dell'Arte Povera, come Mario Ceroli, già negli anni Cinquanta, e in modo più approfondito nei Sessanta, scopre il fascino della lavorazione tradizionale del legno, mentre a fine anni Settanta eclettici protagonisti del postmodernismo, come Luigi Ontani, eleggono la ceramica a materia di riferimento per le loro ironiche e accattivanti sculture.
Per quanto riguarda il contesto italiano, il percorso espositivo prosegue con una serie di artisti quaranta/cinquantenni come Federico Guida con la sua pittura dalle suggestioni tattili, Davide Nido con il suo cromatismo plastico, Vanni Cuoghi con i suoi acquerelli intagliati, i Alfredo Rapetti Mogol con i suoi tessuti testuali, Bertozzi e Casoni con il loro uso visionario della terracotta, Sissi con le sue penelopesche tessiture, Francesco Vezzoli con le sue azzimate stampe fotografiche... Le novità più rilevanti nella rivisitazione del concetto rinascimentale dell'homo faber giungono però dagli artisti stranieri. Uno dei più interessanti esponenti della Young British Art, Matt Collishaw, utilizza in modo sofisticato ed estetico la tecnologia per cesellare installazioni come Parnographia, «una sorta di cinematografia vivente dell'ideale sacro del Monte Parnaso». L'artista anglo-indiano Raqib Shaw crea invece articolate visioni tridimensionali, nelle quali incastona conchiglie, coralli e pietre preziose. L'homo faber, insomma, non è un feticcio della tradizione, ma un'attitudine creativa perenne.
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