Molti si sposavano, moltissime erano in attesa di un bambino. Le foto in mostra al Memoriale della Shoah fino a giugno raccontano anche la gioia, le feste e la vita, nonostante tutto, dei viaggi della speranza verso Israele partiti dalle coste di tutta Italia, i «ritorni illegali» nella Palestina sotto Mandato britannico dei rifugiati ebrei riusciti a sfuggire alle persecuzioni e ai campi di sterminio.
Correvano gli anni tra il 1945 e il 1948, non era ancora arrivato il 14 maggio di settant'anni fa, giorno della dichiarazione di indipendenza dello Stato di Israele. «Tendiamo una mano di pace e di buon vicinato a tutti gli Stati vicini e ai loro popoli, e facciamo loro appello affinché stabiliscano legami di collaborazione e di aiuto reciproco col sovrano popolo ebraico stabilito nella sua terra» aveva declamato con solennità Ben Gurion. I lunghi anni del mai sedato conflitto arabo- israeliano testimoniano come tutto sia andato in direzione contraria.
«Navi della speranza. Aliya Bet dall'Italia 1945- 1948» riporta ai sentimenti di allora, tra le speranze pacifiche e serene di un tempo ingenuo e lontano. La mostra si affaccia sui vagoni piombati e i binari del Memoriale, nel luogo in cui tante deportazioni avvennero nell'indifferenza. Documenta con schiettezza come l'Italia delle leggi razziali del 1938 sia diventata, pochi anni dopo, luogo della salvezza per duecentocinquantamila ebrei in fuga dai Paesi dell'Est Europa, dall'orrore e dalla diaspora. La rotta Italia- Sion, capovolgimento che è stato come un desiderio di redenzione del popolo italiano, coinvolto in modo più o meno consapevole nell'Olocausto.
«Aliya Bet» raccoglie le foto e i filmati ripresi nei poveri campi profughi dentro la mussoliniana Cinecittà, tra le nevi di Selvino, nei kibbutz improvvisati in Puglia, tra i centri sfollati di Santa Maria di Leuca, Santa Cesarea, Tricase, nel porto di La Spezia durante lo sciopero della fame per la nave «Fede» bloccata dai veti britannici. «La Spezia Porta di Sion» è scritto sulla targa che si trova ancora sul molo. «Caino, dov'è tuo fratello Abele?» chiede un manifesto di propaganda per l'immigrazione, iconografia che nella mostra parla come il bel viso del padovano Enrico Levi, primo eroe a fare l'impresa, capitano della prima nave salpata dall'Italia per la Terra Promessa.
«La mostra fa bene agli italiani. Non tutto il mondo ha agito come l'Italia per favorire l'arrivo degli ebrei in Israele» commenta Ofra Farhi, vice ambasciatore di Israele in Italia, che rievoca la vicenda di Ada Sereni, una donna, madre e moglie appassionata, che in Italia fu a capo dell'intera operazione Aliya Bet, lavorando d'intesa con Yehuda Arazi, che da Tel Aviv coordinava l'arrivo degli ebrei.
Aliya Bet è una formula suggestiva. «Aliya è la salita, come gli ebrei chiamano l'immigrazione in Israele, perché Gerusalemme è posta in alto, e la Bet, seconda lettera dell'alfabeto ebraico, è l'iniziale dell'espressione illegale», spiega Fiammetta Martegani, una delle curatrici. Così la mostra, che arriva dal Museo «Eretz Israel» di Tel Aviv, dove è stata visitata dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nella sua versione milanese ha come sottotitolo provocatorio «Immigrazione illegale». Operazione gigantesca, con navi in partenza dalle coste frastagliate della Penisola, porti rifugio dai veti che arrivavano dall'Inghilterra.
Una storia infinita e attuale, pur nella differenza ontologica tra la Shoah e ciò che di mostruoso accade ancora oggi in Siria e non solo, perché, ricorda il neo presidente Roberto Jarach, «il Memoriale è anche luogo d'accoglienza per i profughi, in arrivo soprattutto dai conflitti in Africa e in Medio Oriente: negli ultimi tre anni ne sono stati ospitati ottomilacinquecento».
Sui pannelli della mostra Primo Levi evoca le suggestioni del ritorno: «In coda al treno viaggiava con noi verso l'Italia un vagone nuovo, stipato di giovani ebrei, ragazzi e ragazze, provenienti da tutti i paesi dell'Europa orientale. Nessuno di loro dimostrava più di vent'anni, ma erano gente estremamente sicura e risoluta: erano giovani sionisti, andavano in Israele, passando dove potevano e aprendosi la strada come potevano.
Una nave li attendeva a Bari: il vagone l'avevano acquistato, e per agganciarlo al nostro treno, era stata la cosa più semplice del mondo, non avevano chiesto il permesso a nessuno; l'avevano agganciato e basta. Si sentivano immensamente liberi e forti». Sono parole de «La Tregua» e nel libro respira di gioia anche il cuore dell'uomo che ha vissuto Auschwitz.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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