Cronaca locale

L'architetto dai colori forti che ha «diviso» i milanesi

L'architetto dai colori forti che ha «diviso» i milanesi

Circa un anno fa, in un'intervista, Gae Aulenti aveva ribadito il suo metodo di lavoro. «Non si può costruire lo stesso edificio a San Francisco o a Parigi. Quel che conta è il contesto fisico e concettuale in cui si agisce: prima di progettare, quindi, devo compiere un lavoro analitico molto attento. Devo studiare la storia, la letteratura, la geografia, persino la poesia e la filosofia del luogo».
Proprio a causa di affermazioni come questa, il suo piano di riqualificazione di piazzale Cadorna, a fine anni Novanta, aveva lasciato di stucco, ancor prima che molti cittadini, parecchi addetti ai lavori del mondo dell'architettura. Ma come, dicevano stupefatti critici e professionisti, proprio lei che ha imperniato la sua opera sulla stretta relazione con l'ambiente urbano preesistente, ora colloca una scultura pop, in acciaio e vetroresina, alta più di 18 metri, in una piazza dal sapore ottocentesco, vicina al castello Sforzesco? A simili interrogativi, la Aulenti rispondeva sempre nello stesso modo: «Milano è una città grigia. Il filo verde e rosso dell'opera di Claes Oldenburg non può che darle quel tono di colore di cui ha bisogno». E pazienza per la poesia, la filosofia e tutti i discorsi sulla necessità di uscire da quell'idea di «architettura assoluta» propugnata (a suo dire) dal Razionalismo degli anni Trenta, e ancora maggioritaria nel dopoguerra: discorsi che, nella Milano degli anni Cinquanta e Sessanta, l'avevano segnalata come una progettista avanzata, le erano valse amicizie importanti, come quelle con Ernesto Nathan Rogers e Vittorio Gregotti, le avevano aperte le porte delle riviste che contano, e soprattutto dei salotti che contano.
La verità è che Gae Aulenti è stata un'archistar ante-litteram, capacissima di fiutare le mode culturali e di agire di conseguenza, ma allo stesso tempo brava nell'imporre alla moda del momento il suo stile iper-essenziale, alquanto schematico, e soprattutto abile nell'imporre e nel difendere le sue creazioni. Quando Letizia Moratti, neosindaco di Milano, aveva semplicemente ipotizzato di spostare la contestata scultura di Oldenburg in un'area di periferia, dove peraltro avrebbe trovato il suo contesto ideale, l'architetta era insorta, arruolando tra i suoi difensori i soliti protagonisti della mondanità ambrosiana: Umberto Eco, Guido Rossi, Umberto Veronesi, e altri professionisti e intellettuali di spicco che, come lei, militavano in Libertà e Giustizia, l'associazione fondata dall'editore di Repubblica e «tessera n.1 del Pd», Carlo De Benedetti.
D'altra parte il bel mondo e la politica avevano avuto un ruolo non secondario nel suo successo. La fama le era giunta quando, a fine anni Sessanta, aveva ristrutturato l'appartamento milanese di Gianni Agnelli, e aveva ricevuto pubblici complimenti dal committente. Poco più di un decennio dopo, gli interni da risistemare apparterranno alla casa in zona Porta Genova di Bettino Craxi, allora all'inizio della sua parabola politica. Non sappiamo quale sia stato il gradimento del leader socialista: però sappiamo che, con l'inizio di Tangentopoli, la Aulenti ha fatto accortamente sparire dal suo curriculum ogni traccia di quell'incarico.
In fatto di abitazioni, l'architetta friulana di nascita, ma milanesissima d'adozione (ha anche ricevuto un Ambrogino d'oro nell'89) ha sempre preferito Brera e dintorni. Nei pressi della sua casa-studio, a pochi passi dalla chiesa di San Marco, ci si imbatteva spesso in vip e autorità.

Tra loro, il sindaco Giuliano Pisapia, che ieri ha dettato il suo personale epitaffio: «Milano ha perso un grande architetto, io una grande amica».

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