I quasi diciotto anni dell'era di Roberto Formigoni governatore della Lombardia, come ha preferito sentirsi chiamare anziché semplicemente presidente, tramontano alle 16,58 di venerdì 26 ottobre 2012. Quando l'ufficio di protocollo accetta le dimissioni del quarantunesimo consigliere regionale. E siccome perfino nelle pieghe della più arida burocrazia si nasconde l'ironia del destino, a far cadere il Celeste è il dipietrista Franco Spada, rimasto in carica appena 6 ore dopo aver sostituito il collega Gabriele Sola, le cui dimissioni erano state accolte proprio ieri mattina dall'aula. Un addio al Pirellone che non ha lasciato il benché minimo segno di malinconia sul volto di un Formigoni che da mesi non si mostrava così sereno. Di certo sollevato dall'aver vinto una partita, soprattutto interna al Pdl, che appariva davvero complicata. E, infatti, già pochi minuti dopo l'archiviazione della sua quarta legislatura, rivelava a un fedelissimo di aver preso la decisione di candidarsi alle primarie del Pdl lanciate da Silvio Berlusconi. E dovesse andar male e a vincere fosse Angelino Alfano, il suo ragionamento, a rimanere libero per lui ci potrebbe a quel punto essere un posto da segretario del partito.
Il resto della giornata è stato un estenuante balletto fatto di 1.647 emendamenti alla legge elettorale, minacce di ostruzionismo e accuse di voler mantenere il vituperato listino bloccato, riunioni dei gruppi e abboccamenti tra i capigruppo. Perché anche ieri mattina non erano in molti a credere che le dimissioni avrebbero raggiunto quota 41. A far resistenza la Lega che, con il presidente dell'aula Fabrizio Cecchetti ricordava come si fosse convocato il consiglio fino a martedì per discutere con calma le nuove regole. Una melina poco gradita a Formigoni e ai ciellini. Più condivisa, invece, dalla quota di Pdl più vicina a Mario Mantovani. Il coordinatore regionale che ha però sempre cercato di non spaccare il gruppo. Disposti a dimettersi, «ma solo quando ci saranno le altre 38 firme», quelli dell'Udc. Pronto, ma senza molto entusiasmo, il corpaccione del Pd in cui solo i colonnelli, già pronti per un trasferimento a Roma alle prossime elezioni politiche, hanno esultato.
Ma qui l'abilità diplomatica di Formigoni ha fatto la differenza. Perché la semplice accusa di voler mantenere il «listino bloccato» ha fatto capitolare prima la Lega, poi quelli del Pdl e alla fine andar di fretta Pd e Udc. Perché nessuno si è voluto accollare la responsabilità di bloccare una riforma che impedirà di entrare in Regione senza aver preso nemmeno un voto (vedi Nicole Minetti). E allora con almeno tre ore di anticipo, l'aula con il solo voto contrario del vice presidente Carlo Saffioti, ha approvato l'abolizione del listino,la rappresentanza territoriale di tutte le province, il numero massimo di 80 consiglieri che altrimenti sarebbe potuto salire a 90, il limite dei due mandati per il presidente della Regione e il premio di maggioranza. Poi in 74 al protocollo a consegnare le dimissioni.
Lasciano 74 consiglieri, anche del Pdl La Regione al voto. E senza il «listino»
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