«Lasciate i bimbi nelle culle della vita»

Alberto ce l'ha fatta e sta bene . Ma l'appello delle fondazioni che aiutano le mamme è utilizzare le strutture in anonimato

Alberto vive bene. Le carezze al Niguarda lo proteggono come in un nido di cotone, lui, uccellino di 2 chili e 700 grammi, che nel lunedì dell'Angelo a una settimana di vita ha fatto il volo più periglioso: deposto sul freddo ciglio di una strada a Cormano in una tutina di cotone, lasciato solo al mondo, forse dalla mamma forse da qualcun altro che l'ha strappato al corpo materno.

Atroce la mancanza di quel corpo. Con sè non aveva nulla, neppure gli oggetti identificanti che un giorno potrebbero riportarlo alla genitrice. Tutti gli auguriamo di «vivere sereno», come ha detto l'assessore alla sanità della Regione, Mario Mantovani, ringraziando Giuseppina, la donna che l'ha salvato. Sebbene abbia una settimana, Alberto avvertirà di non essere vicino alla sua culla naturale, lui che non è neppure stato deposto in una culla della vita che a Milano si trova alla clinica Mangiagalli dal 2007. Perché nel caso di Alberto la culla, odierna versione dell'antica ruota degli esposti, non è stata usata?

Se lo chiedono Maria Vittoria Rava, presidente della Fondazione Francesca Rava, e Giovanni Rebay, fondatori del progetto «Ninna ho», a cui aderiscono la Mangiagalli stessa e il policlinico Casilino di Roma, i primi centri in Italia a dotarsi del congegno - accoglienza per i più indifesi. «Aiutiamo le madri in difficoltà a conoscere le strutture in cui si possono lasciare i neonati, senza bisogno di farli piangere in un campo». Alberto non ha avuto la delicatezza riservata a Mario, il neonato deposto con tanta cura il 6 luglio 2012 nella culla della Mangiagalli, il primo ad entrarvi con un corredino identificativo che i medici non hanno voluto rivelare.

Oggi le culle della vita sono diffuse. Se ne trova una a Abbiategrasso, al centro aiuto alla vita in via Edmondo De Amicis 1. Un'altra a Bergamo al monastero domenicano Matris Domini in via A. Locatelli 61. Altra ancora a Brescia agli Spedali Civili in via Pietro Dal Monte. Il progetto di «Ninna ho» ne ha donata una all'ospedale del Ponte a Varese.

«Per la legge italiana è possibile partorire in anonimato e lasciare il bimbo in ospedale» fa presente Maria Vittoria Rava. Alberto ha pelle olivastra, caratteristica fisica che potrebbe far prevedere origini straniere. L'ignoranza, la paura, la miseria fanno compiere ai genitori un gesto che fin dai tempi di Mosè parla di quanto sia delicata e cocente la parola «figlio», e «figlia», visto che in alcuni paesi le ruote degli esposti funzionano proprio per la bambine, la cui nascita è considerata ancora una disgrazia. Ora si sta cercando la madre del piccolo.

Milano è sempre stata all'avanguardia contro la piaga dell'abbandono neonatale. Il primo ricovero, lo xenodochio, per neonati abbandonati fu istituito in città nel 787 dall'arciprete Dateo, ancor prima che la prima ruota degli esposti comparisse in Francia, nell'ospedale dei Canonici di Marsiglia nel 1188 e poco dopo ad Aix en Provence e a Tolone: un semplice cilindro di legno che ruotava su un perno, posto verticalmente nel vano di una finestra sul fronte strada di un edificio. Milano detiene anche un triste primato.

Tra il 1845 e il 1864 vennero abbandonati nella pia casa degli esposti e delle partorienti in Santa Caterina alla Ruota 85.267 neonati, il 30% circa dei bimbi nati in città. Alberto ha tanti cuginetti che ce l'hanno fatta.

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