Vi sono alcune cose che si possono dire del sostituto procuratore Marcello Musso e che aiutano forse a capire quanto la sua morte sia una perdita grave per la giustizia milanese e per la città. La prima, la più ovvia, è che Musso è morto in uno dei quattro giorni di vacanza che si concedeva (anzi, che veniva obbligato a fare) ogni estate. Se fosse rimasto anche a Ferragosto, come avrebbe voluto, chiuso nel suo ufficio al quarto piano del Palazzo di giustizia, con i suoi fascicoli interminabili, oggi sarebbe ancora vivo. La seconda è che è morto nella sua terra, il Piemonte profondo e contadino, dove i suoi si erano spezzati le reni per generazioni. Alla fine, erano riusciti a comprarsi un pezzo di terra dal nome eloquente di Paludo. Lì, alle feste comandate, Musso tornava per accudire la madre ultranovantenne, di cui conservava le foto sull'aia con le galline.
La terza è che anche al Paludo si era portato dietro in questi giorni i fascicoli su cui lavorare, angosciato eternamente che il lavoro di accertamento della verità non andasse avanti. La quarta è che in trent'anni di lavoro non ha mai sbagliato un processo. La quinta è che mentre seminava secoli di carcere a mafiosi e narcotrafficanti non ha mai perso la curiosità per gli uomini che gli stavano davanti, per le loro debolezze, colpe, motivazioni. Il suo ultimo duetto in un'aula di udienza con un boss, il re di Quarto Oggiaro Biagio «Dentino» Crisafulli, resta un esempio di rispetto reciproco tra due uomini che stavano sui lati opposti della barricata della legge. La sesta è che era un uomo di cultura profonda. Al fratello di Crisafulli, che in carcere aveva studiato filosofia e aveva polemizzato con lui parlando di Gadamer, Musso aveva replicato tirando in ballo Sant'Agostino, in un crescendo di citazioni in cui le storiacce di droga si erano dissolte sullo sfondo. Chissà quanto sarebbero andati avanti, se non ci fossero stati avvocati e secondini.
La settima è che quasi tutti i suoi colleghi guardavano a lui come a una sorta di caso umano incapace di godersi la vita, ma erano sempre pronti a rivolgersi a lui per farsi sostituire a una udienza o a un turno domenicale: tanto si sapeva che, anche se non era di turno, la domenica veniva lo stesso in ufficio. L'ottava (strettamente connessa alla settima) è che la sua recente domanda di essere assegnato alla Procura nazionale antimafia non aveva alcuna possibilità di successo, nonostante avesse titoli ed esperienze maggiori di quasi tutti gli altri aspiranti. La nona è che probabilmente non gliene sarebbe importato granché, perché in fondo di lasciare le sue inchieste non aveva voglia. La decima è che era un uomo di una frugalità impressionante. A pranzo, facendosi largo tra i fascicoli sulla scrivania, mangiava una pera e una banana troppo mature. Fin quando ha fumato, fumava sigarette pestilenziali dei monopoli di Stato di cui era probabilmente l'ultimo acquirente. Una frugalità così surreale da apparire un vezzo, invece era il Paludo che si portava dietro, come le parole in dialetto. L'undicesima è che in genere gli stavano sul gozzo i suoi capi e non faceva niente per nasconderlo.
La dodicesima è che era consapevole della crudeltà disumana del processo penale, e che le condanne che gli toccava chiedere lo toccavano nel profondo. Quando un giudice andò oltre la sua stessa richiesta, aumentando la pena che aveva ipotizzato e che già considerava severa, rimase scandalizzato. La tredicesima è che il processo per i due amanti dell'acido, Alex Boettcher e Martina Levato, lo aveva reso mediaticamente famoso; lui non si era tirato indietro, e quando aveva portato due scarpine in dono al bambino appena partorito da Martina lo aveva fatto con indubbia civetteria. La quattordicesima è che riteneva grottesco che si fosse parlato di quel processo assai più che delle indagini gigantesche sui traffici di droga a Milano. La quindicesima è che credeva in Dio, nello Stato e nella difficoltà di capire bene come sia andata una certa faccenda. L'ultima è che era un uomo buono e generoso.
Alla giovane tirocinante che gli era stata assegnata, una delle aspiranti giudici che i suoi colleghi a volte trattano come manodopera gratuita, si era dedicato come un padre, sommergendola di consigli, ritagli, pareri. E il giorno in cui la ragazza aveva sostenuto l'esame lui era andato in chiesa a pregare per lei e ad accendere un cero: come si fa al Paludo, tra la gente semplice e sofferente dei campi.
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