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Mendicanti e senzatetto È la stazione degli ultimi

Mendicanti e senzatetto È la stazione degli ultimi

Qualcuno ricorda la trama del film di Frank Capra «Angeli con la pistola»? Annie è una mendicante che fa credere alla figlia lontana d'essere una madre ricca. Questa è la storia di Margherita. Cinquant'anni, un corpo sinceramente abbondante, un sorriso che non si spegne. Arriva da Belgorai in Polonia, un viaggio per arrivare a campare poi tra i cento esseri umani che vivono in stazione Centrale. Ha anche una borsa, come se fosse pronta per uscire di casa per fare una passeggiata.
I treni partono: sono Frecce Bianche e Rosse ad alta velocità perché il mondo è cambiato. La stazione no. La locomotiva non fa più «ciuf, ciuf» e neppure la nube di fumo che i bambini disegnavano a scuola, ma la stazione continua ad essere una tana fissa per coloro che hanno perduto l'ultimo treno della vita, come Margherita. «Una volta lavoravo. Ho fatto la badante e persino l'infermiera al Niguarda, dove sostituivo una ragazza che aspettava un bambino. Quando è tornata, ho perduto il posto. Non sono capace di rubare. Sono venuta qui, ho incontrato degli amici e vivo di carità».
Abitava in un appartamentino in via Ornato, ora si stravacca per terra, a fianco dei binari, su un vagone in sosta, ma non è senza famiglia. In Polonia ha tre figli di 30, 28, 26 anni che stanno bene. Non va da loro? «No. Non sanno che vivo così, mi vergogno a confessarlo. Credono che qui in Italia conduca un'esistenza dignitosa e così voglio che continuino a pensare. Come potrei ammettere che passo giorni e notti in stazione? Spero sempre in un lavoro».
Sono in cento e uno con Margherita, come la carica di cagnolini; tra loro anche Luca Periotto di Rovigo. Non si nascondono, stanno alla luce del sole perché oggi nessuno si accorge di questi volti, la modernità pulita impedisce agli uomini d'essere curiosi di incontri che potrebbero entrare in un romanzo di Dickens, ma di certo non in una foto su Facebook, dove tutti si fanno più belli di quello che siamo. Nella zona «ticket» trotta la «Principessa», romana, magrissima, occhi di gatto, che con la compiacenza del personale ferroviario aiuta i ritardatari a fare i biglietti automatici in cambio di qualche euro. «Sanno che non sono cattiva e che non ho altri mezzi per mangiare».
Il Comune ha piazzato le statue di Enolo e Fornaro sotto l'atrio della Centrale, simbolo della corretta alimentazione, emblemi di questa grande civiltà che nutre il pianeta ma che non è ancora riuscita, duemila anni dopo Cristo, a nutrire questi esseri umani la cui vita è una parentesi. Una parentesi, più una parentesi, un'altra parentesi, fino a scomparire in mezzo ai numeri che contano.
«Enolo è romano come me» scherza in romanesco Manolo Angeloni, mostrando il braccialetto della Roma. In coppia con l'amico napoletano Tony Di Mattia vende bracciali fatti con fili di seta. «Siamo due ex carcerati, condannati per rapina a mano armata» racconta Angeloni, che è stato a Regina Coeli, nel carcere di Mantova, in quello di Firenze e a San Vittore. «Siamo cambiati. Nei sette anni di carcere ho fatto il liceo classico. Almeno per una volta vado su un giornale per una cosa bella!» dice Di Mattia. «I bracciali «costituiscono il nostro sostentamento. Teniamo la maggior parte del ricavato per noi, ma inviamo un piccolo gruzzolo agli amici che stanno scontando la pena. Giuro che è vero!».
Manolo e Tony abitano in una casupola fuori Milano. Scendono da un treno il mattino e se ne vanno a notte.
Luca Periotto si stacca dal gruppo di Margherita e ci sussurra all'orecchio: «Se quei due giovani hanno detto di vivere in stazione, hanno mentito.

Loro vengono e vanno; solo noi restiamo», quasi fosse un privilegio, un blasone di nobiltà, condurre l'esistenza fissa là dove i treni si mobilitano ad alta velocità.
La povertà a bassa velocità fa ancora «ciuf, ciuf». E bambini non la disegnano più, neppure su Facebook.

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