Diceva Paolo Grassi, il fondatore del Piccolo Teatro: «Fiorenzo è una specie di gatto affettuoso che ti sta vicino, che ti fa capire che ti vuole bene, che non ti dice perché ti vuole bene, che non ti spiega, che ti risponde con dei soffi, con dei " eh già, sai com'è, uff, ciusca, neh, forse, ecco». Prolifico e geniale nel produrre musica, parco fino all'eccesso nelle parole: così era Fiorenzo Carpi, che per quarant'anni diede musica alle idee più nuove che si muovevano a Milano (e non solo). Carpi fu la colonna sonora di quella fucina di idee che era la Milano del dopoguerra e poi del boom, del Sessantotto, fino agli anni di piombo: sempre un passo indietro, un semitono sotto ai furori ideologici di quegli anni convulsi, privo di ardori innovativi quanto di tradizionalismi inconsulti, pronto a cogliere, sfruttare, mischiare tutto quanto si muoveva nella musica e nella cultura.
Se ne andò diciotto anni fa. Adesso un libro di Stella Casiraghi e Giulio Luciani («Fiorenzo Carpi, Ma mi», Skira editore) ne racconta la vita. È un viaggio dentro un uomo e una città. Nel titolo del libro c'è la canzone che più di tutte è rimasta e che Carpi scrisse insieme a Giorgio Strehler. Ma prima e dopo Ma mi e la fondamentale collaborazione con Strehler c'è una galleria quasi incredibile di incontri, che sfugge in buona parte alle categorie della cultura cosiddetta alta: basti pensare che una delle ultime canzoni di Carpi fu On the morning after , che Ingrid Thulin cantò in un film di Tinto Brass. E che però sta a ridosso degli anni in cui Carpi musicava brani di complessità estrema come le due canzoni di Ariel nella Tempesta shakespeariana, dove nell'orchestrazione prevedeva strumenti medievali come la viella e il salterio.
Sono decine e decine, i flash che il libro offre, a dipingere la sua complessità. Franca Valeri, che lo ebbe come partner fondamentale nel teatro dei Gobbi: «Per me, melomane e cultrice delle grandi amicizie, lavorare con Carpi era una gioia anche per un'altra profonda affinità, la pacatezza. Ho sempre pensato che le urla annebbiano le conclusioni. Quando si parlava di un fatto teatrale, situazione o personaggio, Fiorenzo sembrava che pensasse a altro, le note già gli battevano in testa». Dario Fo: «Con gli imbecilli poteva essere morbido solo se riscontrava una certa ingenuità, altrimenti era spietato per la mancanza di rigore».
Si può avere o meno simpatia per Fo, ma la collaborazione Fo-Carpi produsse brani che solo l'ingiustizia del tempo ha fatto dimenticare: come La brutta città («Non esiste pianura più piatta di questa - dove il vento ha paura di sporcarsi di nebbia - dove un Duomo pazzesco coperto di pizzi - è una cava di marmo vestita da sposa»).
Dopodichè, è inevitabile che su tutto, a fare un'ombra colossale sul resto della produzione, pesi il sodalizio con Strehler. Sodalizio difficile, a fronte della estrema diversità dei caratteri: sul quale Carpi si espresse senza ipocrisie, «Io in generale avevo l'abitudine di andare a registrare a Roma, poi portavo su i nastri, che a lui non piacevano quasi mai. Rientravo a Roma, facevo un altro tipo di registrazione, tornavo su e trovavo che lui magari faceva le prove adoperando quella che prima aveva chiamato merda e che adesso gli andava bene».
Ma alla fine i due si capivano, e Strehler racconterà quasi con devozione la timidezza con cui Carpi gli fischiettò per la prima volta l'aria finale delle «Baruffe chiozzotte».Tutto ciò però appartiene al passato, alla memoria un po' malinconica di una città dove era ben chiaro che la cultura è nulla senza intelligenza, e viceversa.
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