Prima della Scala

Milano Prima, ma balla da sola

Roma snobba la Scala. Da Sala a Maroni: "Meglio, tiriamo dritto"

Milano Prima, ma balla da sola

Non c'è nulla che un potere dispotico ossessionato dalla necessità di conservarsi combatta più di un uomo che ama libri e cultura. Lezione classica, ma sempre bella da sentir ripetere. Magari incastonata in un rito laico come la prima di Sant'Ambrogio suggellata quest'anno alla Scala dall'Andrea Chénier di Umberto Giordano su libretto di Luigi Illica, voluto dal maestro Riccardo Chailly e ispirata al poeta giustiziato il 7 termidoro, due giorni prima di Robespierre. E quindi non poco, ma davvero molto importa (checché cerchi inutilmente di sminuire il sindaco Giuseppe Sala) che Milano sia stata costretta ancora una volta a ballare da sola. Miseria e nobiltà in una scena a cui fa da quinta la rivoluzione francese, ma soprattutto nel palco reale. La nobiltà di una città che ancora una volta ha messo in cartellone una straordinaria operazione culturale e la miseria dei Palazzi romani che hanno disertato il più importante evento che il Paese metta nel suo cartellone che sarebbe riduttivo definire musicale. Con il sottosegretario Maria Elena Boschi, la personalità più importante inviata in trasferta dal governo in quella che evidentemente è considerata solo una provincia e piuttosto remota dell'impero, costretta ad entrare furtiva e da un ingresso posteriore per evitare la contestazione e soprattutto le domande scomode. Magari sui pasticci di papà e congreghe renziane nei bilanci in rosso di Banca Etruria. Peccato perché il suo abito era veramente degno di nota. E così, a proposito di potere che detesta la cultura, è meglio occuparsi dello spettacolo e di quello spiccio «Quel Gérard l'ha rovinato il leggere» con cui viene liquidato il moto d'orgoglio del servitore che si ribella alla gavotta ancien régime ballata dagli ospiti del castello di Coigny mentre fuori monta la rabbia e sale il grido di dolore di chi può dire «siam genti grame che di fame muor». E allora «è vile il pane che qui mi sfama» si ribella Gérad all'inizio di quel cammino che lo porterà a percorrere la parabola di una rivoluzione che comincia come spesso succede con una atto d'amore per il popolo e tramonta nel sangue del Terrore giacobino che tutto travolge. La grande storia dell'umanità che si avvita come una spirale e in un eterno ritorno dell'identico tutto si riappalesa intrecciando la piccola storia d'amore dei protagonisti. Una spirale evocata da quel carillon tragico a cui é ispirata la macchina scenica del regista Mario Martone. Prova superata (ma di dubbi non ce n'erano) dalla divina Anna Netrebko e soprattutto dal marito Yusif Eyvazov. Da bocciare gli eccessi di troppe sciure tra abiti fiorati e smisurati, cadenti botox esibiti, braccia usate come lavagne su cui scrivere messaggi e facce più da museo che da liceo.

Troppo volgari e imperdonabili per un inno tragico all'amore che si chiude di fronte a una ghigliottina con un «viva la morte insiem».

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