La mostra dedicata al grande maestro del Divisionismo Giovanni Segantini che si inaugura oggi a Palazzo Reale è curata da Annie-Paule Quinsac e da Diana Segantini, pronipote dell'artista. Quest'ultima, non più di tre anni fa, fu l'artefice di un'altra importante antologica alla Fondazione Beyeler di Basilea, dove espose 70 dipinti sull'intera evoluzione pittorica dell'artista trentino naturalizzato svizzero.
A Milano i dipinti sono 120, che cosa ha voluto aggiungere e che cosa togliere?
«Beh, questa mostra vuol essere soprattutto un omaggio a Milano che fu nel bene e nel male l'epicentro della carriera artistica del mio bisnonno. Pertanto sono presenti le opere dei suoi esordi, ovvero del periodo tra il 1865 e il 1881 in cui visse nel capoluogo lombardo prima di trasferirsi in Brianza: come il Coro di Sant'Antonio che fu esposto all'Esposizione annuale di Brera e gli valse una medaglia e l'attenzione della critica. Ma sono presenti molte altre opere di collezioni private, alcune mai viste, che riflettono l'influenza delle sue relazioni con la Milano artistica. Un focus, dunque, da cui mancano ovviamente pezzi importanti come il Trittico delle Alpi...»
Quello con Milano fu anche un rapporto controverso. Qui c'erano i suoi galleristi, i fratelli Grubicy, con cui spesso entrò in conflitto.
«I primi anni furono molto difficili così come la sua infanzia. Tuttavia con Milano mantenne un forte legame anche durante la sua vita svizzera, partecipando ai dibattiti oltre che ai maggiori appuntamenti come la Triennale. Con i galleristi ci fu un contratto ingiusto di monopolio a fronte di un vitalizio che a Segantini non bastava. Per anni cercò di emanciparsi da questa esclusiva con l'appoggio di sua moglie Bice Bugatti».
La sua bisnonna lo aiutò molto nella carriera?
«Fu di grande stimolo. La conobbe diciassettenne in quanto sorella del compagno di studi a Brera Carlo Bugatti. Erano di famiglia colta e borghese mentre lui aveva origini umili, fu lei a farlo a studiare e a introdurlo negli ambienti giusti».
La vita agiata e il lusso gli piacevano molto, spesso spendeva più di quanto possedeva. Un aspetto che stride con i contenuti dei suoi quadri sulla semplice vita agreste.
«È vero, ma Segantini non ha mai dimenticato le sue radici umili e la sua casa di Maloja è sempre stata aperta a tutti, alla borghesia, ai letterati come ai contadini. Amava la giustizia, i diritti dei più poveri e i valori della tolleranza. Certo gli piaceva spendere. Ma ha investito tanto soprattutto nell'educazione dei suoi figli».
Suo nonno era il primogenito Gottardo, il primo dei quattro figli di Segantini. Voi discendenti abitate ancora nella grande casa di Maloja, che ricordi conserva?
«Tutto perchè, per volere della famiglia, ogni cosa è rimasta al suo posto, compresa la sua collezione privata. Quella casa parla di foto, lettere e aneddoti; anche perchè il bisnonno, che lavorava tanto in montagna, amava avere cura del suo nido».
Morì a soli 41 anni di peritonite. Quelli che seguirono furono anni molto difficili, anche per la gestione del patrimonio.
«Già, mio nonno Gottardo prese le redini della famiglia e i problemi erano tanti, a cominciare dal mantenimento di una famiglia di quattro figli. Furono costretti a vendere tutto anche per acquistare la casa di Maloja che non era ancora di proprietà, e infatti alla famiglia non restò più neanche un'opera del capostipite, tranne tre e o quattro disegni. Per sopravvivere dovettero inventare anche un commercio di stampe dell'opera di Segantini».
Alla fine poi anche i figli tentarono di seguire le orme paterne, tutti artisti o quasi...
«Sì, mio nonno Gottardo si dedicò prima alle acqueforti poi alla pittura.
Il fratello Mario, che era il pù talentuoso, tentò anch'egli la strada del Divisionismo. L'unica femmina, Bianca, si occupò dell'epistolario e dell'organizzazione di conferenze sull'artista. L'ultimo fratello, Alberto, scrisse un paio di romanzi ma, poco dopo la morte del padre, si tolse la vita».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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