M. Alessandra Filippi*
Gerusalemme (Israele) La notte cala veloce su Tiberiade. Sulla terrazza di Casa Nova, un solido edificio del XIX secolo in pietra lavica, dai Francescani adibito all'accoglienza dei pellegrini, una ragazza araba canta Salmi dall'Antico Testamento, con le mani rivolte alla luna, specchiata nel lago.
Sono partita da 10 giorni eppure mi sembra trascorso un secolo. Mentre in ogni angolo della terra la frenesia dei regali consuma le energie residue, fra mille altre incombenze quasi mai necessarie, io ho spento le mie, preso lo zaino e sono partita alla volta di Israele, per me come per molti Terra Santa, alla ricerca dello spirito del Natale, della ragione più intima e profonda in virtù della quale, più o meno degnamente, da oltre 2000 anni lo festeggiamo. Perché festeggiamo il Natale? Ma soprattutto, cosa significa questa festa?
Immersi come siamo nello «spirito del tempo» che tutto divora e omogeinizza in un sistema di valori e consuetudini che spesso seguiamo come piccoli automi e dei quali siamo vittime inconsapevoli, non è facile dare risposta. Ancor più difficile è coltivare lo spirito del profondo, attraverso il quale entrare in contatto con la parte più intima e ineffabile della nostra anima e dunque con l'infinito. Frastornati da mille falsi bisogni, dobbiamo rompere geometrie e traiettorie, uscire dal seminato e andarcela a cercare dove tutto ha avuto inizio. Fra le pieghe e le piaghe di quell'angolo di mondo dove il Natale si è fatto carne.
Col mio zaino ho deciso di attraversare a piedi la Galilea sulle orme di Gesù e da lì arrivare fino a Gerusalemme e Betlemme, Alfa e Omega del suo passaggio sulla terra. Pellegrina fra i pellegrini. Con lo zaino, non più di 6 chili, compresa l'acqua. Scoprendo una verità preziosa destinata a cambiare il mio punto di vista sulla vita: noi non abbiamo bisogno quasi di nulla. Da Milano a Tel Aviv in aereo, il treno per Akko, l'antica San Giovanni d'Acri, celebre città crociata, ultima a cadere quando tutto era ormai perduto nel 1291. Misto di mistero e esotismo di raro fascino. Il cammino inizia qui. Grazie a incontri inattesi ma non casuali, ho potuto prendere parte a celebrazioni delle quali ignoravo l'esistenza come l'accensione dell'albero di Natale sia ad Akko che a Ibillin, intorno ai quali ho visto stringersi le comunità cristiane e mussulmane, fianco a fianco. Assistita dalla fortuna, che preferisco chiamare provvidenza, in ho trovato due anime amorevoli che mi hanno tradotto gli interventi e permesso di comprendere parole che altrimenti sarebbero rimaste mute. Una frase fra tutte mi è rimasta impressa, pronunciata dallo Sheick di Ibillin, Hassan Heda: «Se amiamo Dio, amiamo tutti. Dio è amore. Questa notte festeggiamo l'amore di Dio perché Gesù è stato mandato per portare un messaggio di luce per tutto il mondo. Qui non ci sono mussulmani o cristiani. Qui noi siamo un'unica famiglia». Mentre camminavo verso Nazareth, ripensando a queste parole pronunciate da un mussulmano, per la prima volta ho realizzato che in effetti siamo tutti figli dello stesso Dio. E non valgono a nulla tutte le decorazioni se prima non impariamo a pulire i nostri cuori dalla polvere. Il Natale, il cui senso più profondo si è smarrito, è il messaggio del cielo alla terra, un messaggio di Pace che ci offre l'occasione, ogni anno, di ricominciare come uomini nuovi, di tornare al mondo e alimentare la nostra dimensione interiore, l'anima, l'ulteriorità, dunque la nostra relazione con Dio. Ho ascoltato messe in tutte le lingue. In disparte, nella moschea di Nazareth, le preghiere musulmane. Davanti alla grotta dell'Annunciazione ho pianto quando ho compreso il valore dell'invito del padre francescano col quale ho avuto una delle confessioni più surreali della mia vita: «Risanare la memoria». Parole che da allora risuonano come un mantra e che ho portato lungo la salita al Monte Tabor. Un faro. Unica ospite e pellegrina, ho cenato nell'immenso refettorio, coccolata come una principessa dai ragazzi di Mondo X, la comunità che gestisce la Guest House del convento dei Francescani. Nel più puro spirito dell'accoglienza non hanno voluto nulla in cambio. «I pellegrini che viaggiano a piedi per noi sono sacri. Ancor di più quelli che viaggiano da soli» mi hanno detto quando ho tentato di pagare. Il mattino dopo, avvolta nella nebbia, sotto una pioggia battente ho preso la statale diretta a Tiberiade. Attorno a questo lago si è svolto il cuore del magistero di Gesù. Qui ho vissuto altre esperienze, visto luoghi che avevo solo immaginato attraverso i brani del Vangelo e che ho riletto, passo dopo passo, salendo il Monte delle Beatitudini, sedendomi in riva al lago a Cafarnao e Tabgda, immaginando Pietro che, sconsolato, all'esortazione di Gesù di riprendere il largo e rigettare le reti, gli risponde: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti». Tiberiade mi rimane nel cuore. L'ospitalità gioiosa di padre Giacomo, le cui messe cantate, celebrate nella chiesa dedicata a San Pietro che porta incisa la data A.D. 1100, hanno rallegrato e scandito le mie giornate; il porticato sotto il quale nei giorni piovosi ho scritto, letto e contemplato il Mare di Galiela. I tramonti dagli orizzonti larghi. E tutti gli incredibili incontri che ho fatto anche qui e dei quali sono grata perché mi hanno aiutata a comprendere che se dai amore ne ricevi molto di più, in mille modi diversi. Poi Gerusalemme, attraversando la Palestina. Una terra arsa e bellissima. E Betlemme, la Chiesa della Natività, dove sempre grazie alla provvidenza ho ricevuto in dono da un frate francescano iracheno un biglietto per partecipare alla Messa di Natale. Era solo un sogno. Adesso è diventato realtà. Chiedete e vi sarà dato, insegnava il Maestro. Basta credere, con gioia e speranza. Questo viaggio è una formidabile sintesi della vita.
Come lo è il pellegrinare. Sono felice. Forse è proprio questo il Natale. Rinascere ogni volta a se stessi, nel nome di qualcosa più grande di noi. Buon cammino, dunque, se non nei passi almeno nel cuore. E Buon Natale.
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