Cronaca locale

Il nodo no global

Il nodo no global

Uno degli argomenti più scottanti, ma nello stesso tempo meno trattati di questa campagna elettorale è la sorte dei centri sociali, considerati dalla maggioranza dei milanesi - soprattutto se abitano nelle loro vicinanze - una vera e propria piaga. Naturalmente, questi centri non sono tutti eguali. Per un Leoncavallo che continua sì ad occupare illegalmente un'area urbana e a svolgere una serie di attività artistiche e commerciali senza pagare le relative tasse, ma bene o male è ormai inserito nel tessuto sociale della città (il suo portavoce Daniele Farina è stato addirittura eletto deputato al Parlamento per Rifondazione comunista), ce ne sono molti altri che sono autentici covi dell'eversione. Dopo gli incidenti di Corso Buenos Aires, il Consiglio comunale aveva approvato una mozione della Casa delle libertà che chiedeva la chiusura dei due o tre centri in cui era stata pianificata e organizzata la selvaggia incursione. Finora, tuttavia, le autorità hanno fatto orecchie da mercante, con la spiegazione ufficiosa che la chiusura sarebbe controproducente per l'ordine pubblico, in quanto è molto più facile tenere i giovani disobbedienti sotto controllo se vivono e operano sotto lo stesso tetto che se si disperdono per la città. Nella motivazione c'è sicuramente del vero, ma nei cittadini rimane non solo il fastidio di dovere sopportare «vicini» sgraditi, ma anche la percezione di una illegalità scientemente tollerata.
Ciò nonostante, nessuno dei due candidati ha preso sul tema posizioni nette. Entrambi usano, giustamente, la discriminante tra centri che rispettano le regole e quelli che non la rispettano, ma non dicono poi che cosa intendono fare con i secondi. Letizia Moratti, nel capitolo dedicato alla sicurezza, promette una lotta senza quartiere alle occupazioni abusive (e quindi, in teoria, anche da parte dei centri), ma non fa alcun riferimento specifico al problema. Per Ferrante, parlano i cinque anni in cui, come prefetto di Milano, ha praticato la politica pilatesca che una parte della Giunta comunale continua ancor oggi a rinfacciargli. Come ormai tutti sanno, a lui i problemi che non possono essere risolti «sedendosi intorno a un tavolo» non riescono graditi: comunque, anche se volesse,non potrebbe fare nulla, perché i suoi indispensabili alleati della sinistra radicale, che già oggi non perdono occasione per criticarlo, gli salterebbero immediatamente addosso.
Con tutto ciò, il problema esiste, perché sempre più i centri più aggressivi risultano coinvolti in attività che non solo sono in grave violazione della legge, ma procurano anche gravi danni alla città è suscitano forti reazioni nella gente: cortei con imbrattamento di muri e distruzione di vetrine, dimostrazioni di carattere eversivo (vedi 25 aprile e 1 maggio, per parlare solo delle più recenti), gestione di potenziali rivolte contro l’autorità come nel caso dei presunti «profughi politici» da Sudan ed Eritrea che pretendevano dal Comune case con servizi. La maggior parte di questi giovani non ha altra attività oltre a quella di «lottare» in varie forme contro l’ordine costituito, e anche quando svolgono attività cosiddette sociali e di aggregazione hanno in genere in mente il fine ultimo di una fantomatica rivoluzione. Bisogna riconoscere che i centri non sono solo un fenomeno milanese, ma sono presenti in quasi tutte le città italiane, provincia compresa, e che la decisione di tollerare la loro esistenza anche quando i suoi membri commettono reati è stata presa a livello nazionale.

Tuttavia, c’è tolleranza e tolleranza: e quella che pratichiamo a Milano dovrebbe limitarsi al minimo indispensabile, cioè a quanto richiesto dalla Digos per evitare guai peggiori.

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