Forse è la chiave del «giallo» o forse è solo un abile depistaggio. Di sicuro un buon punto di partenza per capire come un feto di 4/5 mesi sia finito in un freezer della Bicocca. C'è infatti un nome e cognome da cui partire, quello di una dottoressa che in passato aveva lavorato nell'Ateneo, scritto su un foglietto trovato accanto al macabro reperto. Ma, in attesa delle sue spiegazioni, rimangono aperti due scenari egualmente inquietanti: il tentativo di gettare discredito sull'Università oppure la leggerezza di qualche ricercatore che si è procurato illegalmente il corpicino cercando in seguito di nasconderlo in qualche modo. In ogni caso non una bella figura per l'Ateneo, tanto che il rettore Marcello Fontanisi da due giorni ripete furibondo: «Se è stato un professore o un allievo, qui non ci mette più piede».
Una minaccia lanciata poche ore dopo la scoperta fatta da un docente e una laureanda che avevano aperto un freezer al terzo piano dell'edificio U3, sede del dipartimento di bioscienze e biotecnologie. Una scatola di polistirolo, banalmente simile a quella per conservare i gelati, con dentro un sacchetto contenente un feto umano di 4/5 mesi, lungo 20/25 centimetri. Un breve conciliabolo con la responsabile del dipartimento Marina Lotti e con il rettore quindi la conferma che un simile ritrovamento era incompatibile con l'attività dell'Ateneo. «Non ci risultano ricerche su feti nel nostro Ateneo, né sono consentiti dalla legge - ha tuonato Fontanisi -. Chi ha infranto le regole sarà subito cacciato». Subito avvertita, la polizia prendeva in consegna il feto e lo portava all'Istituto di medicina legale. Qui i medici scoprivano alcuni punti di sutura che sarebbero indicativi di un aborto terapeutico. Ma soprattutto un foglietto firmato da una dottoressa che in passato aveva lavorato alla Bicocca. Spunti investigativi che potrebbero portare le indagini a una svolta perché quanto meno pare chiaro che quel feto è il risultato di un intervento chirurgico. La dottoressa dovrà spiegare cosa la collega a quel reperto.
L'ambito delle indagini comunque non dovrebbe essere molto ampio. Il «nascondiglio» infatti è uno dei quattro frigoriferi ad azoto liquido, grandi come un armadio, sistemati in un locale di circa 15 metri quadrati e utilizzati dal gruppo di ricerca del professor Angelo Visconti. Non ci sono serrature o codici né telecamere a protezione. «Non siamo un laboratorio nucleare né studiamo armi chimiche o batteriologiche, la sicurezza non è tra le nostre priorità» precisa Marino Lotti responsabile del dipartimento. Un estraneo pertanto potrebbe accedervi senza essere notato, ma sembra un'ipotesi improbabile: il locale si trova in fondo a un lungo corridoio dove si aprono decine di altri laboratori. Dentro operano ricercatori che più o meno si conoscono tutti tra loro. Dunque il feto sembra essere stato nascosto da qualcuno che opera o ha operato all'interno dell'Ateneo.
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