A favore dell'imputato c'è «molto più che il ragionevole dubbio: la ragionevole certezza della sua estraneità al delitto». Con queste parole quasi in fondo alle 260 pagine di motivazione della propria sentenza i giudici della Prima sezione della Corte d'assise d'appello di Milano, presieduti da Ivana Caputo, spiegano l'assoluzione di Stefano Binda decisa lo scorso luglio. Il 51enne, accusato di aver ucciso Lidia Macchi a Cittiglio, non lontano da Varese, nella notte tra il 5 e il 6 gennaio 1987, in primo grado era stato condannato all'ergastolo.
I giudici di secondo grado analizzano le tesi dell'accusa, portata avanti dalla Procura generale di Milano, e anche alcune argomentazioni della parte civile, cioè la famiglia della 19enne colpita da 29 coltellate dopo essere stata costretta a un rapporto sessuale, rappresentata al processo dall'avvocato Daniele Pizzi. E le smontano pezzo per pezzo. Trattandosi di «processo indiziario», scrivono, gli elementi nel loro insieme dovrebbero permettere di attribuire il reato all'imputato «al di là di ogni ragionevole dubbio». Ma così non è. I «dati circostanziali» non hanno «alcun grado di certezza fattuale e nessuna valenza dimostrativa intrinseca perché frutto di mere presunzioni ed assertive congetture». La Corte arriva a parlare di «vero e proprio deserto probatorio via via fattosi vertigine» e di «congetture», alcune delle quali persino «azzardate».
Quella che era considerata dall'accusa la prova regina, cioè il componimento anonimo In morte di un'amica che doveva essere una confessione e che una consulenza grafologica ha attribuito all'imputato, deve essere al contrario per i giudici d'Appello consegnata «all'oblio processuale che si merita». D'altra parte, per gli stessi giudici, è la scienza a scagionare Binda. «L'unica vera testimonianza - si legge - che ha apportato un utile, formidabile, ancorché incompleto, brandello di verità, è paradossalmente proprio quella della vittima». Ancora: «Le spoglie di Lidia Macchi, con l'aiuto indispensabile della scienza, hanno parlato». Ecco il punto cruciale: «I resti scheletrizzati della vittima, in una zona anatomica assolutamente significativa, quella pubica, a fronte di un congiungimento carnale certo ed inconfutabile, hanno conservato preziose tracce - che, assurdamente e incredibilmente, si vorrebbero liquidare come neutre (così era scritto nella sentenza di condanna, ndr) - dell'individuo che ebbe con lei quell'unico e ultimo rapporto sessuale completo, causa scatenante (ragionevolmente possibile) di quella furia omicida)». Si tratta di alcune formazioni pilifere da cui è stato estratto un profilo genetico, che è rimasto ignoto ma che di certo non corrisponde al Dna di Binda. Lo stesso vale per le tracce trovate sui lembi della busta in cui è stata spedita la poesia anonima. La scienza, sottolinea di nuovo la Corte, ha dato «un aiuto decisivo e dirimente» all'imputato.
Ha introdotto «un dubbio molto più che ragionevole circa la sua estraneità rispetto al componimento poetico, e, quel che più conta, rispetto al delitto». Perciò, si conclude, «è decisione di giustizia non più procrastinabile» liberare Binda «da ogni accusa».
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