A Prada la Galleria, a D&G gli insulti

A Prada la Galleria, a D&G gli insulti

A chi vi dovesse ricordae che «i soldi non hanno colore», rispondete pure che non è più così. Almeno in questa Italia dove se avete la sfortuna di finire tra le grinfie di un magistrato o vi azzardate a partecipare a un concorso universitario è meglio se esibite un incontestabile pedigree progressista e di sinistra. Per non parlare di premi letterari o sceneggiature di film da far finanziare (magari con denaro pubblico). Perché adesso quella sottile linea rossa tracciata tra i buoni (di sinistra) e i cattivi (tutti gli altri) ha conquistato un'altra frontiera: quella degli accertamenti fiscali. E se ti chiami Dolce e Gabbana sei un «evasore», addirittura prima di una sentenza definitiva e in barba a qualsiasi garanzia costituzionale di innocenza fino a terzo grado di giudizio. Se, invece, sei Miuccia Prada e con Patrizio Bertelli frequenti i salotti radical chic della gauche caviar o caviar left all'anglosassone, allora la giunta rossoarancione del sindaco Giuliano Pisapia non vede l'ora di cederti a pezzi la Galleria che per i milanesi è il cuore non solo architettonico della città. Cacciando quei popular di McDonald's, gli unici da quelle parti a vendere cibo a prezzo di cibo e non di gioielli. E quegli inutili intellettuali della Feltrinelli: gente che vende libri, sia mai che qualcuno ne legga troppi e magari cominci a pensare con la propria testa.
Perché la vicenda è emblematica. E parte da quest'estate quando l'assessore Franco D'Alfonso, ideologo della rivoluzione arancione di Pisapia, regala una delle sue memorabili gaffe. O meglio lapsus freudiani che involontariamente rivelano il vero pensiero dei suoi «compagni». «Qualora - la sua sentenza quando quella definitiva dei giudici era ancora lontana - stilisti come Dolce e Gabbana dovessero avanzare richieste per spazi comunali, il Comune dovrebbe chiudere le porte». Il motivo? «La moda - spiegò - è un'eccellenza nel mondo, ma non abbiamo bisogno di farci rappresentare da evasori fiscali». Parole chissà quante volte ripetute nei sinistri salotti, ma che dette sui giornali ebbero un effetto esplosivo. «Milano fa schifo» replicarono gli stilisti con Pisapia che pretese le scuse. Ottenendo solo tre giorni di serrata dei negozi D&G e un clamore internazionale che non rese certo un bel servizio al marchio di Milano nel mondo.
Viste le premesse ci si sarebbe aspettati altrettanta censura nei confronto del duo Prada-Bertelli finito ora nel registro degli indagati della Procura per i reati di «dichiarazione infedele» e «omessa dichiarazione». Atto dovuto dopo la voluntary disclosure (autodenuncia) alla Agenzia delle entrate nei cui fascicoli è finita una società con sede fittiziamente spostata all'estero, sottraendo al fisco 470 milioni di euro. Ma dal Comune nessuna levata di scudi. Nessun pentimento per aver concesso a Prada di occupare, oltre al negozio storico, tutto la spazio lasciato dagli hamburger. Spostando in Galleria l'ingresso del Museo della Fondazione che sarà aperto nella mega-boutique. Con Feltrinelli invitata con 6,5 milioni di buonuscita a cedere alla griffe due vetrine e il piano ammezzato.


La morale? Se volete fare affari, parafrasando il filosofo e teologo secentesco Blaise Pascal e la sua «scommessa», anche se non ci credete nel dubbio buttatevi a sinistra. Perderete magari l'anima, ma non il business.

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