Primitivi, tribali o degenerati Sguardi sul continente nero

Tra antico e contemporaneo, una mostra ai Frigoriferi adesso racconta gli artisti africani visti da Occidente

Mimmo Di Marzio

È finalmente possibile rappresentare un'estetica dell'Africa libera dallo stereotipo dell'«arte negra», esotica o degenerata, ma comunque filtrata dallo sguardo del «cacciatore bianco»? È la scommessa dell'evento più interessante che si inaugura in questa settimana dell'arte costellata da fiere, qualche antologica e operazioni «site specific». Proprio Il Cacciatore Bianco, titolo cinematografico icona dello spirito colonialista che permea l'inconscio occidentale, tiene a battesimo la ricca mostra ideata da Marco Scotini per l'FM Centro per l'Arte Contemporanea ai Frigoriferi Milanesi. Quella di Scotini non è l'ennesima esposizione sull'arte tribale e sulle sue molteplici contaminazioni, dalle avanguardie alla globalizzazione. Al contrario, il curatore usa la dovizia analitica del reporter per un'inchiesta sulla cultura artistica africana come oggetto: ora di dominio, ora di culto, ora di rivoluzione. Ma pur sempre di oggetto parliamo, insinua il sottotitolo «Memorie e rappresentazioni africane», declinazione di una mostra che parte dal flashback nell'Italia coloniale degli anni '20 e '30 per un volo d'uccello sulle opere d'arte negra tradizionale per la prima volta esposte alla Biennale di Venezia, fino alle metafore e alle contaminazioni contemporanee. Una mostra ricca di opere, con una chiave di lettura originale e un rigore filologico che si avvale della preparazione teorica di Scotini e l'apporto prezioso dell'africanista Gigi Pezzoli. Proprio a quest'ultimo si deve la disamina dell'epoca della famigerata Biennale veneziana del maggio 1922 che, cinque mesi prima della Marcia su Roma, per la prima volta concesse l'appellativo di opere d'arte a statue e maschere africane provenienti dal Museo Etnografico di Roma e dal Museo di Antropologia di Firenze. Sarebbero dovuti trascorrere oltre 40 anni perchè, tra abiure e censure, si organizzasse in Italia una nuova mostra di arte tradizionale africana (a Roma nel 1959) e ben... 85 anni perchè una nuova edizione della Biennale veneziana ospitasse una sezione speciale dedicata all'Africa. La mostra di Milano (una di quelle che vorremmo trovare al Mudec se qualcuno se ne occupasse) espone una ricca e pregevole testimonianza di quella prima timida Biennale con un nucleo di statue e maschere provenienti da Mali, Costa d'Avorio, Camerun, Congo e Angola. Lo sguardo del Cacciatore Bianco verso quell'«arte primitiva», che nel '22 oscillava tra la curiosità e lo scherno, negli anni '80 occhieggia mistico nella mostra «Magiciens de la terre» al Centre Pompidou che intendeva stupire (ancora) il pubblico con l'arte contemporanea «incontaminata» e un po' stregonesca di Seni Awa Camara, i feticci di legno di John Goba, le pitture popolari di Cheri Samba, le architetture immaginifiche di Bodys Isek Kingeles. Di lì a poco sarà ancora un bianco, il sudafricano William Kentridge, a modificare lo sguardo occidentale su un mondo che stava cambiando rapidamente e sull'orlo dell'esplosione.

L'Africa tornava (forse) a riappropriarsi della propria identità attraverso i video a sfondo sociopolitico di Kentridge, gli ironici assemblage di Pascale Marthine Tayou, gli abiti ottocenteschi di fattura occidentale e stoffe africane di Yinka Shonibare, le figure femminili ibridate dei collage di Wangechi Mutu. Vera identità o ancora una volta soltanto «maschere»? Tutto il mondo è un palcoscenico, e tutti gli uomini e le donne solamente attori, scriveva Shakespeare in «As You Like It».

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