La procura preme «Riesumate i resti di Lidia Macchi»

Sul corpo della studentessa di Varese potrebbero esserci tracce del killer In carcere c'è il compagno di classe

Cristina BassiL'«extrema ratio» è arrivata prima del previsto. Il sostituto pg di Milano Carmen Manfredda gioca la carta decisiva: chiedere la riesumazione del corpo di Lidia Macchi. D'altra parte il magistrato, che ha riaperto il cold case e coordina le indagini sull'omicidio della studentessa di Varese avvenuto 29 anni fa, ha già dimostrato di non voler lasciare nulla di intentato per raggiungere la verità. Sulla richiesta deciderà il gip di Varese Anna Giorgetti. A volere la dolorosa ma ormai inevitabile riesumazione sono anche i familiari della vittima. Assistiti dall'avvocato Daniele Pizzi, avevano fatto istanza a novembre. La speranza è che sui resti della ragazza, violentata e massacrata con 29 coltellate, sia possibile trovare tracce genetiche del suo assassino. E confrontarle con il Dna di Stefano Binda, l'ex compagno di liceo di Lidia arrestato per l'omicidio lo scorso 15 gennaio. Dopo quasi trent'anni le possibilità di rintracciare residui biologici utili alle indagini sono molto ridotte. Ma proprio il fatto che ci sia stato uno stupro potrebbe aumentarle grazie alla presenza di tracce spermatiche. Si tratterebbe della vera svolta: l'equazione tra violentatore e assassino sarebbe praticamente certa. La corrispondenza genetica quindi potrebbe inchiodare Binda. Come la non corrispondenza, al contrario, potrebbe scagionarlo. L'accelerazione sui tempi della riesumazione si spiega col fatto che l'analisi di resti così deteriorati - Lidia è sepolta nel cimitero di Casbeno a Varese da quasi un trentennio - sarà particolarmente complessa. E per conoscere gli esiti ci vorranno probabilmente mesi. Se il gip darà il via libera, la fondamentale procedura si svolgerà con la formula dell'incidente probatorio, che permette di cristallizzare le eventuali prove. Intanto è stato prorogato a tutta la prossima settimana il sequestro del parco di Mantegazza. È qui che la Squadra mobile e l'esercito stanno cercando la possibile arma del delitto. In un recente interrogatorio davanti al gip infatti Patrizia Bianchi, teste fondamentale nell'indagine, ha dichiarato di aver accompagnato Binda nell'area verde pochi giorni dopo la morte di Lidia. L'uomo avrebbe avuto con sé un sacchetto e l'avrebbe poi gettato. Finora sono stati scovati sei coltelli e un falcetto. Domani Carmen Manfredda conferirà a un antropologo forense l'incarico di esaminare le lame alla ricerca di impronte digitali e tracce di Dna della vittima o del killer. Binda, oggi 48enne, è a San Vittore. Non ha mai risposto agli inquirenti, ma si è sottoposto al prelievo del Dna. I suoi legali, Sergio Martelli e Roberto Pasella, hanno fatto ricorso in Cassazione contro la carcerazione. Puntano sull'insussistenza delle esigenze cautelari, la Suprema corte deciderà il 29 aprile. Dopo gli interrogatori del 15 febbraio scorso il gip ha anche chiesto alla Procura di valutare la contestazione del reato di falsa testimonianza a carico di don Giuseppe Sotgiu. Si tratta dell'amico «inseparabile» di Binda, oggi sacerdote a Torino, che all'epoca del delitto - ricostruisce il gip - confermò il suo alibi. A 29 anni di distanza avrebbe risposto con troppi «non ricordo», tanto da insospettire i magistrati. Il Dna ritrovato sulla busta della lettera anonima che ha portato all'arresto di Binda non è comunque di Sotgiu. Le sue mancate risposte sono un muro di gomma contro cui si è scontrato chi indaga.

Come la scoperta del fatto che i vetrini con le tracce spermatiche prelevate nel 1987 dal corpo di Lidia erano state distrutte. Chissà se i suoi poveri resti custodiscono ancora un segreto. I colpi di scena nel cold case di Cittiglio finora non sono mancati.

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