Profughi, il prezzo troppo caro pagato dalla città

Maroni e Pisapia, due mondi a confronto su tante cose. Soprattutto sul tema dell'immigrazione e dell'accoglienza dei profughi. Ad Assisi, nel giorno di San Francesco, si è tornato a metterli di fronte questi due modelli. Roberto Maroni che insiste sulla prevenzione dei flussi migratori, Giuliano Pisapia che rilancia invece il «modello Milano» di accoglienza. «Siamo stati capaci di dare un segnale forte della capacità di poter garantire la necessaria, dovuta e sentita assistenza a migliaia e migliaia di profughi che sono passati a Milano e che scappavano dalla fame, dalla miseria, dalla tortura e dalla guerra», ripete da sempre il sindaco. «Siamo stati capaci di dare una possibilità, di dare una speranza nel futuro». E sicuramente è così. Ma viene anche naturale chiedersi qual è stato il prezzo che la città ha dovuto pagare e sta pagando per far fronte a questa emergenza umanitaria. Perché in gran parte di ciò si tratta. I milanesi ancora una volta sono stati straordinari: «Milano con il cuore in mano» non è solo un modo di dire. Hanno fatto la fila per portare abiti, scarpe, pasta e qualsiasi altra cosa potesse servire a chi ne aveva più bisogno di loro. Una gara di solidarietà a un certo punto anche esagerata tant'è che i volontari che raccoglievano gli aiuti in stazione Centrale sono stati obbligati a dare uno stop. Ma il problema è anche un altro e non si può far finta di non vederlo. È la gestione di un flusso di migranti enorme che, dopo la Sicilia dove approda il 18 per cento delle persone, vede in prima fila Milano e la Lombardia. E le strutture sono al collasso. A lanciare l'allarme in estate era stato proprio Pierfrancesco Majorino, assessore al Welfare della giunta Pisapia, annunciando che il Comune aveva deciso di chiudere le strutture di accoglienza ormai sature: «Dopo 76mila persone assistite non abbiamo voglia di impazzire aprendo posti improbabili, senza nessun tipo di intervento significativo da Roma - aveva polemizzato col ministro Angelino Alfano - In emergenza ci occuperemo solo dei bambini». Un campanello d'allarme inascoltato dal governo. Perché poco è cambiato. E così al malumore dei profughi che ad agosto erano scesi in strada bloccando la città per protestare contro scadenti le condizioni di vita nel centro di accoglienza di Bresso, si è via via aggiunto quello di chi si è trovato a convivere centinaia di migranti ospitati in qualche modo. Malumore che è diventato rabbia. Come in Porta Venezia. Qui i residenti dopo aver sopportato,si sono ribellati ai bivacchi e hanno chiesto un incontro al questore Luigi Savina e un presidio fisso di polizia. Troppi accampati tra viale Vittorio Veneto, sotto i Bastioni, sui marciapiedi da via Lazzaro Palazzi a via Lecco. Troppi a sopravvivere tra le aiuole dei Giardini Montanelli o davanti alla chiesa San Carlo del Lazzaretto. «Mangiano e dormono per strada, fanno i bisogni a cielo aperto, creando degrado e insicurezza - hanno così scritto al prefetto - Aiutiamoli, ma distinguiamo i profughi siriani che scappano dalla morte, dai clandestini. Non si può vivere così». Ma il conto più salato lo paga chi vive qualche centinaio di metri più in là. È il quartiere della Stazione Centrale ad essere veramente sotto assedio. Tutto ruota attorno all'ex dopolavoro ferroviario di via Tonale, trasformato in un Hub di prima accoglienza. E come un ospedale da campo, i migranti vanno quasi tutti lì ma non c'è posto per tutti nei tre stanzoni da 450 metri quadrati. Così Centrale e vie limitrofe sono diventate il suk che sono diventate. E si potrebbe continuare, perché l'elenco delle proteste, della rabbia delle tensioni non finisce qui.

Certo si sta parlando di un'emergenza. Si sta parlando di ondate di arrivi senza precedenti non semplici da gestire. C'è un prezzo da pagare e la città lo sta pagando. Ma quando il sindaco parla di «modello Milano» farebbe bene a ricordarlo.

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