Diego Preda (nella foto) non era una preda. Almeno non era una preda di quelle classiche: lo spacciatore, lo strozzino, il ricattatore... Non era insomma la preda tipica da Milano nera del tempo che fu, di quando, sulle colonne dei quotidiani o sulle pagine dei romanzi gialli, tutto ciò che pareva insensato e inspiegabile alla fine in qualche modo «quadrava». Diego Preda era assicuratore, ma adesso l'unica cosa sicura è che non c'è nulla di sicuro. A parte il cadavere, ovviamente, freddato a bruciapelo con un colpo alla nuca sparato da un'arma di grosso calibro. Magari una calibro 9 come quella che dà il titolo alla celebre raccolta di racconti di Giorgio Scerbanenco? E quel precedente dell'82 per omicidio colposo, avvolto da una nebbia vecchia di trent'anni, può davvero essere il sottile filo conduttore della vicenda? O forse il bandolo della matassa lo si deve cercare in qualche relazione potenzialmente pericolosa fatta dalla vittima sul lavoro (un cliente? un collega?) o su un lussureggiante campo di golf della Costa Smeralda, fra mazze e aperitivi, belle signore e colazioni d'affari?
Si fa presto a dire «giallo», ma troppo spesso è l'unica cosa da fare, per ingannare il tempo e tenere alta la tensione delle indagini, in Questura e nelle redazioni. Una volta era in voga il ritornello degli inquirenti che «brancolano nel buio», anche se «non escludono nessuna pista». Oggi il buio del maledetto angolo fra via Mosè Bianchi e via Alberto Mario è l'unica pista. Una volta gli stropicciati taccuini dei cronisti e le sigarette senza filtro dei poliziotti potevano rincorrere soltanto i testimoni, sperando in un colpo di fortuna che fruttasse almeno un abbozzo di identikit: un paio di baffi... un trench sdrucito... un metro e ottanta circa... no, diciamo uno e settantacinque... Magari il particolare rivelatore della corsa affannosa di un tale subito dopo l'esplosione del colpo... Il quale forse zoppicava un po', oppure aveva perso da una tasca un guanto, un fazzoletto da recapitare subito alla Scientifica...
Oggi, invece, abbiamo altri strumenti meno artigianali e più rigorosi: i telefoni cellulari con il loro traffico convulso di chiamate fatte e ricevute, le carte di credito che sputano precisi riferimenti di quando, quanto e dove. E poi, soprattutto, le telecamere che anche lì, all'angolo fra Mosè Bianchi e Alberto Mario, qualche cosa avranno pur visto, qualche ombra da scannerizzare, ingrandire ed elaborare al computer avranno pur registrato. Certo, lo si diceva anche per il duplice assassinio di Massimiliano Spelta e di sua moglie Carolina Sulejni Payano Ortiz, il 10 settembre scorso. Ma poi abbiamo visto come non è andata a finire.
Molta acqua torbida è passata lungo i Navigli dall'epoca della ligèra, il sottobosco della criminalità più o meno organizzata del primo Novecento. E molta ne è passata anche dagli anni di ferro e fuoco che precedettero, accompagnarono e seguirono il piombo del terrorismo. Oggi i milanesi (i nativi e gli acquisiti per forza e poco volentieri) non ammazzano più soltanto il sabato, ma tutti i giorni della settimana, 365 giorni l'anno. E quelli che non ammazzano e non vengono ammazzati leggono i giornali e guardano la tv in attesa che qualcuno lo trovi, il sottile filo, il bandolo della matassa.
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