Sant'Eustorgio tra i Magi e l'inquisitore assassinato

I tre re hanno riposato nella chiesa per ottocento anni poi sono stati rubati dal Barbarossa e restano reliquie

Non ci fu niente da fare in quell'ignoto giorno di un anno imprecisato intorno al 355 dopo Cristo in cui Eustorgio giunse a Milano. Costante, l'imperatore di Costantinopoli figlio di Costantino, aveva spedito in città quel greco pieno di buoni propositi. Doveva fare il governatore ma, quando morì il vescovo Protaso, tutti decisero che ne sarebbe stato il successore. E lui, per carattere deciso ma poco incline a estemporanee iniziative individuali, si recò a Bisanzio a chiedere i favori del sovrano. Questi, ben felice di concederglieli, lo rispedì indietro con un dono di prestigio. I resti dei Re Magi.

Non ci fu niente da fare in quell'ignoto giorno di un anno imprecisato intorno al 355 dopo Cristo quando Eustorgio e i notabili al suo seguito si accorsero che le ruote del carro si erano bloccate. E non si muovevano più. Eppure. Erano giunti alle porte di Milano. Sostituirono i cavalli. Ma non cambiò nulla. Li rimpiazzarono con i buoi. E nemmeno loro furono capaci di trascinare il carico. Eppure. Si doveva proseguire ancora poco, fino a Santa Tecla. Una cometa invisibile si era forse arrestata su quella radura. Gli aristocratici guardarono il vescovo interdetti. Lui li ricambiò, sereno e determinato. «Se non si spostano più da qui vuol dire che qui vogliono restare. E qui costruirò una chiesa per Gaspare, Melchiorre e Baldassarre» disse agli attoniti compagni di un viaggio ormai concluso. Fu un segno del destino. E lì sorse la basilica che a lui deve il nome. Dove riposa nella pace della santità da quasi millesettecento anni. Santa Tecla, invece, la sorte volle cancellarla per sempre. E sul sagrato del Duomo resta solo il disegno della pianta architettonica che fu.

Non ci fu niente da fare neppure nove secoli dopo, in quel 6 aprile 1252, primo sabato dopo Pasqua. Pietro Rosini era un domenicano con un'indole mite che scoloriva in tratti austeri. Un talebano del cattolicesimo. E Innocenzo IV - un ligure del casato dei Fieschi che non temeva Iddio tantomeno i sovrani terreni - aveva individuato in quell'omino dal fisico poco imponente il perfetto inquisitore per Milano e Como. Frà Pietro, che vi si era trasferito vent'anni prima stabilendosi nel convento attiguo a Sant'Eustorgio, aveva obbedito all'ordine di combattere catari e manichei, padroni della città. E sapeva di essersi fatto più nemici che amici. All'approssimarsi del 1252 confidò ai confratelli che non ne sarebbe uscito vivo nonostante avesse solo 47 anni. Pochi gli credettero ma ebbe ragione lui.

Stefano Confalonieri, un cataro cui era stato intimato di comparire davanti all'Inquisitore, assoldò due sicari che aspettarono il giudice in un bosco, oggi cancellato dalle case di Seveso. Frà Pietro camminava verso Milano con un discepolo cantando una sequenza che sapeva di profezia. «Victimae paschali laudes». Nel frattempo un altro Pietro - Carino da Balsamo - in compagnia del Magnifico, li attendeva armato. Affondò il coltello in quelle sacre carni e stette a guardarli morire. Sprezzante. Mentre invocavano pietà. E colpì Pietro alla testa con rinnovato impeto. Arrogante dispensatore di morte. Il Magnifico, colto dal terrore, se la diede a gambe levate nel folto della vegetazione dove l'avrebbe poi raggiunto l'assassino.

I catari esultarono, il problema del giudice scomodo era stato risolto. E se il nostro corpo se l'era inventato Satana per indurci al peccato, quale stranezza mai era un inquisitore ammazzato a roncolate peggio di un topo... Restarono sereni. Intanto, il podestà aveva acciuffato i delinquenti ma essendo anche lui eretico, da buon simpatizzante, lasciò scappare Pietro, perseguitato dal peso del suo delitto. Si fermò a Forlì stanco e malato e fu ricoverato all'ospedale dei poveri dove confidò il suo passato a un frate. Come talvolta accade, fu la nemesi. Prese i voti lui stesso che, a differenza di Dio, non si perdonò. Prima di morire raccomandò di essere sepolto in terra sconsacrata ma il popolo non lo accontentò e lo volle in chiesa dove è venerato come beato. Nella tomba fu seppellito senza il capo, donato al suo paese d'origine nel 1934, quel Balsamo più noto come Cinisello.

A Pietro, beato e assassino, che perse la testa toccò lo stesso destino del santo e inquisitore, sua vittima, anch'egli decapitato. Dopo l'omicidio, papa Innocenzo lo elevò all'onore degli altari e sant'Eustorgio divenne la sua dimora eterna. Nel Trecento a Giovanni di Balduccio fu commissionata l'arca per quel sacro corpo e nel Quattrocento fu eretta la cappella Portinari destinata ad accoglierla. Ma lo scultore, forse troppo attento a celebrare San Pietro con le allegorie delle Virtù, sbagliò misure. Imbarazzato, tremò. L'arcivescovo e committente Giovanni Visconti fu temperante. E sorprendente. «Gli taglieremo la testa» disse. E così andò.

A rimettere ordine pensò il popolo. Da allora, andò a pestà el coo in Sant Ustorg e si convinse che Pietro era il patrono contro l'emicrania. Posare un panno sulla miracolosa teca e poi intorno alla fronte avrebbe guarito ogni dolore per sempre. La ricetta diceva una volta l'anno ma c'erano i più generosi. E i più supplichevoli. Tranquillizzati dal gesto e incuriositi da un'altra testa - quella Madonna con le corna - che appare un po' blasfema e stravagante proprio sopra quella sofferta arca. Vincenzo Foppa non era pittore da prendere dozzinali cantonate e celebrò un miracolo del santo, attirato in chiesa da un eretico che aveva chiesto a un mago di far apparire Satana con le sembianze della Vergine. Il diavolo dimenticò le corna e Pietro non si lasciò ingannare. Espose l'Ostia consacrata e mise in fuga il perfido Asmodeo. La leggenda parla poi di una nuvola che coprì il capo di frà Pietro a colloquio con un cataro in un afoso e assolato pomeriggio d'estate. Questi si disse disposto a convertirsi se a quel cielo opprimente avesse dato tregua un'ombra improvvisa.

E in nome di Dio accadde. Non fu un'illusione come quella di venerare i sovrani pellegrini. Il «Sepulcrum trium Magorum» è vuoto. Simulacro di un furto. Quello del Barbarossa che rubò le reliquie per trasportarle a Colonia. Era il 1162.

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