«Siamo nelle vostre strade pronti alla macellazione»

I due jihadisti pubblicavano minacce su Twitter I giudici: «Erano realmente motivati a uccidere»

Cristina Bassi

«Lupi solitari» attivi a Milano e con il Duomo nel mirino. «Soldati di Allah», che minacciavano la città e l'Italia e progettavano attentati nel nostro Paese dopo aver aderito all'Isis. Muhammad Waqas, pachistano di 27 anni, e Lassaad Briki, tunisino 35enne, secondo la convinzione degli inquirenti sono stati fermati prima che accedesse il peggio. Arrestati nel luglio del 2015 e condannati lo scorso 25 maggio a sei anni di carcere per terrorismo internazionale, erano pronti all'azione.

A Nizza e Rouen non è andata così bene. Ma nelle motivazioni della condanna, pubblicate ieri dalla corte d'Assise presieduta da Ilio Mannucci, sono descritti scenari che ricordano fin troppo da vicino quelli francesi e non solo. Messi nero su bianco in uno dei primi documenti giudiziari italiani sul fenomeno dei soldati del Califfato che decidono di punire gli «infedeli» sul terreno europeo. Per le indagini della Digos, coordinate dall'aggiunto Maurizio Romanelli e dal pm Enrico Pavone, Briki è l'autore dei tweet e dei selfie postati nell'aprile 2015 con foto del Duomo, della Centrale, di auto della polizia, delle bandiere di Expo ma anche del Colosseo con frasi come «Siamo in vostre strade. Siamo soldati di Allah» e «Siamo già a Rome. Nostri coltelli sono affilati e pronti per la macellazione». Il tunisino usava lo pseudonimo «homar_moktar». Con Waqas, lo dimostrano le intercettazioni, nella casa di Manerbio nel Bresciano pianificava il viaggio in Siria per addestrarsi, teneva contatti con «mujaheddin» che lo avevano preceduto e discuteva su come procurarsi le armi e sulla scelta degli obiettivi da colpire.

Se il martirio è il coronamento dell'attacco dell'estremista islamico, spiegano i giudici, non è necessario - né auspicabile - aspettare che gli jihadisti portino a termine azioni violente per perseguirli. «L'esecuzione di un'azione terroristica - scrivono - in genere segna anche il momento in cui l'intervento repressivo dello Stato è ormai inutile». Per questo si è deciso di «anticipare» le contromisure, sulla base dell'adesione esplicita all'organizzazione criminale, della preparazione di attacchi e dell'attività di proselitismo. E di introdurre la «configurazione di un reato di pericolo». Il marchio di fabbrica dell'Isis, continuano i giudici, è il «terrorismo individuale». Ordina «di colpire gli infedeli ovunque si trovino, cosicché ogni aderente sa perfettamente qual è il suo compito, la cui esecuzione dimostra la condivisione e il perseguimento degli scopi dell'associazione e viene perciò dalla stessa rivendicata». Mentre i suoi soldati «traggono il coraggio di compiere attentati proprio da una certa megalomania e dalla convinzione che dalle proprie iniziative solitarie serviranno a fare qualcosa di grande per l'Is, dando un significativo apporto per l'affermazione dell'ideologia jihadista nel mondo». Il manuale scaricato dagli imputati (How to survive in the West) riportava capitoli dai titoli «Come nascondere l'identità da estremista», «Armi primitive», «Bombe fatte in casa». Quando discutono di attaccare la base Nato di Ghedi, sempre nel Bresciano, affermano che «l'importante è ammazzare». Convengono che bisogna fare in fretta, perché il Ramadan sta finendo, e ipotizzano di agire anche in una chiesa o contro i carabinieri. «Voglio ammazzare due tre carabinieri.

Odio tanto i carabinieri», dice Waqas. «Attuare il jihad attraverso la commissione di attentati - conclude la Corte - è certamente l'obiettivo principale che lo Stato islamico richiede a ogni mujaheddin ed è anche l'ossessione dei due imputati».

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