nostro inviato a Catania
Qualche tornello in più, un marito e un padre in meno: sette mesi dopo, tutti al Raciti-day per capire se davvero qualcosa può cambiare. Inutile raccontarci favole: senza quella morte, il calcio continuerebbe nelle sue domeniche di sempre, segnate da cori dementi, lacrimogeni fumanti, gente accoltellata e agenti tumefatti, senza che nessuno avverta il bisogno di metterci mano. Serve il morto, a noi, per darci una mossa. Raciti è il nome in codice della svolta: dopo Raciti, s'è detto, niente sarà più come prima. E via con il giro di vite, le leggi speciali e la tolleranza zero. E via anche con i soliti eccessi di grottesco: dovendo rimuovere gli striscioni offensivi, ne viene rimosso uno esposto dai quattro tifosi del Genoa, la semplice parola che sa di cultura popolare: «Belin». Niente. Temibile. Cancellato anche quello.
Sette mesi dopo, tutti qui per vedere se davvero niente sarà più come prima. Anche la giovane vedova Raciti, Marisa Grasso, è qui per un sopralluogo dell'anima: vuole vedere se il suo sacrificio personale può cambiare almeno l'atmosfera. Ha vinto l'angoscia, il lutto, i risentimenti, e si è portata dietro il suocero Nazareno, una vecchia quercia isolana che da anni non metteva piede allo stadio. Dice al suo arrivo l'emozionata signora: «Tra il nostro stato d'animo e quello del pubblico c'è molta differenza: i catanesi sono venuti per esultare, noi in questo luogo respiriamo il senso della tragedia. Ci ricorda la fine della nostra famiglia, della nostra stessa vita».
Il colpo d'occhio offre i cambiamenti dell'edilizia. Diverso il piazzale della famosa guerra notturna, quella con i giovinastri fuori di cervello che lanciavano di tutto e i blindati della polizia che improvvisavano disperati caroselli: non sarà più possibile, perché tutto è recintato da vetrate e cancellate. Ci sono anche le celle per ingabbiare sul posto gli eventuali barbari di ritorno. Ci sono i biglietti nominali, ci sono le bibite versate rigorosamente nei bicchieri di plastica, ci sono gli steward della società, c'è l'interminabile lettura a mezzo altoparlante del nuovo regolamento di sicurezza. Ma che cosa davvero c'è di nuovo, a Catania?
Un minuto, un solo minuto. Piccolo e interminabile, come tutti i gesti che non si misurano con la clessidra. È questo il vero segnale. Quando l'arbitro fischia l'inizio del raccoglimento, la Catania per bene tiene il fiato sospeso: c'è il terrore che i muri e i tornelli, che i sei milioni di euro spesi dal Comune per restituire al Cibali-Massimino un nuovo decoro, che tutte le precauzioni prese e gli appelli lanciati non riescano a tenere fuori l'idiozia. Basterebbe un fischio, un coro, un'offesa...
Parte un applauso unanime e assordante. Applaudono soprattutto loro, i signori delle curve. Vedova e suocero assistono in lacrime, mentre i giocatori depongono anche un mazzo di fiori davanti alla Nord. In questo minuto c'è tutto il senso di una nuova speranza, che soltanto lo scorrere delle domeniche dirà se vero e attendibile. Il resto è pura e semplice partita, con i suoi appalusi e i suoi fischi, secondo un rituale antico.
Qualcosa è cambiato? Qualcosa è cambiato. Forse, chissà. La signora Raciti ci spera. A partita conclusa, con il mal di testa per eccesso d'emozione, così dipinge la giornata: «Quel minuto lo temevo. Invece, i tifosi hanno saputo scaldarmi il cuore. Segno che forse hanno capito: dietro alla divisa c'è un uomo, una famiglia, degli affetti. Hanno persino accettato il pareggio serenamente. Spero che questo clima resti per sempre. E ovunque. Stasera, tornando a casa, racconterò ai miei figli queste emozioni. Di un interminabile minuto d'applausi per il loro papà. Dirò anche che il nonno finalmente è tornato a sorridere, tifando Catania. Se servirà, gli farò io l'abbonamento».
Dopo, il Catania calcio si rituffa nei suoi problemi.
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