Toni Servillo è considerato il miglior attore italiano del momento. Un momento che dura almeno dall’abbinata de Il divo e Gomorra, se non da prima. Attore di cinema e teatro. Ma lui mette il teatro davanti al cinema. All’ultima Mostra di Venezia aveva due film, uno in concorso, Noi credevamo, kolossal sul Risorgimento di Mario Martone nel quale è un Mazzini cripto-terrorista, e Gorbaciof di Stefano Incerti che esce domani in 140 copie ed è imperniato tutto su di lui. Al Lido, però, Servillo si è fermato solo una mattina perché l’indomani doveva essere a Ravello per Sconcerto, il nuovo spettacolo teatrale su testo di Franco Marcoaldi e musiche di Giorgio Battistelli. La tournée è passata da Roma e dal Piccolo di Milano. Ma, toccata e fuga: la mattina dopo c’era un aereo per Montreal dove ha riscosso grande successo con La trilogia della villeggiatura di Goldoni. Lo stesso era accaduto a New York, Parigi, San Pietroburgo, Istanbul, Varsavia, Madrid e via viaggiando. Però lui vive a Caserta. Nel nuovo film è un cassiere del carcere di Poggioreale con il debole per il gioco. Un personaggio molto napoletano...
Come crede sarà accolto nel resto d’Italia?
«Recito da trent’anni e ancora non ho capito quale sia il meccanismo che porta la gente a teatro. Per il cinema è ancora più difficile: l’accoglienza di un film può dipendere dalle condizioni metereologiche o dall’uscita contemporanea di altre pellicole. Tuttavia, essendo un film quasi muto, basato su una relazione pantomimica tra il protagonista napoletano e una ragazza cinese, sono confortato dal fatto che al Festival di Toronto sia stato venduto in America, Francia, Spagna, Inghilterra e Svizzera».
Dalla voglia sulla fronte deriva il soprannome del protagonista. Ma a renderlo personaggio sono sempre lo stesso abito striminzito e la camminata...
«L’abbigliamento e la parrucca sono un’invenzione della costumista Ortensia De Francesco. Appena mi sono messo dentro quella maschera ho cominciato a camminare così nel quartiere di Vasto. E Incerti mi è venuto dietro con la cinepresa. Gorbaciof è un animale che sceglie la solitudine. Come certi topi che esercitano la propria influenza in una zona precisa. Questo cassiere mi ha affascinato perché è fuori dal mondo. Il mondo lo fa il denaro che scorre nelle scommesse, nell’azzardo, nelle rapine. E che può cambiare la vita di questi individui da un momento all’altro...».
Ha detto di essersi ispirato a Chaplin e «Luci della città». L’altra protagonista del film è la Chinatown napoletana.
«Gorbaciof sembra un piccolo Charlot metropolitano, lo dico con grande umiltà. Dopo una prima sceneggiatura ci siamo accorti che lo sfondo di questa Napoli dove c’è grande concentrazione di popolazione cinese aveva una sua forza narrativa. Così, abbiamo snellito la sceneggiatura per privilegiare la pantomima tra il cassiere e la ragazza in quel brulichio cittadino».
Lei ha un debole per certi delinquenti: mafioso che vuole cambiar vita in «Le conseguenze dell’amore», trafficante di rifiuti in «Gomorra», ex camorrista in «Una vita tranquilla», in gara a Roma...
«Se accetto questi personaggi è perché sento di poterli interpretare oltre gli stereotipi. In un paese in cui tutti rubano tanto, Gorbaciof non è un criminale, ma uno che rimette a posto quello che ha sottratto per giocare d’azzardo. In Gomorra il mio personaggio è un pescecane in perfetto stile brechtiano. In Una vita tranquilla, un ex camorrista braccato dal passato. Tutta gente inseguita da un destino tragico, nel senso che per loro non v’è redenzione...».
Napoli è una passionaccia, una malattia...
«È una città nei confronti della quale mi sento debitore perché è un pozzo di idee, personaggi, scritture. Non sempre attingo a questo bagaglio, da quattro anni giro con una commedia di Goldoni. Però lo tengo sempre presente, per quell’ironia che sa prendere le distanze da tutto ed è un elemento nutriente per un attore».
Ha recitato per Sorrentino, per Martone, ora per Incerti. C’è un nuovo fermento nel cinema napoletano?
«Napoli è una città con molti problemi sul piano della convivenza civile. Ma dispone anche di un grande serbatoio di rinnovamento del linguaggio del cinema, del teatro, della musica. Tutto ciò non colma le sue lacune, ma conferma che, spesso, dove esplodono i conflitti la riflessione artistica è più profonda».
Lei ha interpretato sia «Il divo» che «Gomorra», i due film della rinascita. Che però, forse, si è fermata...
«Vorrei essere molto chiaro. In quella circostanza non mi unii al coro trionfalistico generale perché con quei due film era arrivata la consacrazione di due personalità - Paolo Sorrentino e Matteo Garrone - che erano già riconosciute. Non mi aspettavo che dopo due film con un linguaggio originale seguisse una messe di altri film altrettanto innovativi. Ma ora non dobbiamo denigrarci. In Italia c’è una generazione di attori e registi apprezzata anche all’estero. Chi chiese a John Huston quanto si sarebbe dovuto attendere per avere attori migliori di Clark Gable, si sentì rispondere che De Niro e Al Pacino lo avrebbero superati. Ma passarono trent’anni. Con le promesse bisogna avere pazienza e attendere che le generazioni maturino».
Non trova che i cineasti stranieri, da Clint Eastwood a Woody Allen alla Coppola, sappiano interrogarsi sul senso dello stare al mondo più e meglio dei nostri?
«È così. Su questi terreni siamo un po’ deficitari rispetto ad altre cinematografie. I nostri attori e i nostri registi si cibano dei film e delle interpretazioni dei maestri del passato. Altrettanto i nostri sceneggiatori dovrebbero attingere alla grande letteratura, per rintracciare la stessa profondità di tematiche».
Un film che non è ancora riuscito a fare?
«A teatro mi è capitato spesso di interpretare personaggi leggeri. Anche al cinema mi piacerebbe raccontare la realtà di oggi attraverso la comicità. Ma ammetto che, a differenza dell’epoca in cui si sono espressi maestri come Risi e Monicelli, oggi l’atmosfera è più pesante. Più prossima alla smorfia che alla risata».
Come vive a Caserta uno che fa due film l’anno ed è sempre in tournée con il teatro?
«Vivo come tutti: preparo la valigia e parto. Inoltre, non faccio tre film l’anno, ma uno solo, di solito durante l’estate quando sono fermo con il teatro.
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