«Mio padre Franco Albini, architetto sempre in affitto»

Il figlio Marco racconta vita, progetti e talento dell’artista che costruiva tutto, dal cucchiaio alla città

Luigi Mascheroni

Che avesse talento per il disegno fu subito chiaro a tutti, a partire da mamma Corinna. Ancora oggi figli e nipoti raccontano del Sander, il cuoco di famiglia, soggetto preferito dei suoi ritratti a carboncino. Del resto, l’infanzia nella villa di Robbiate, in Brianza, dove era nato nel 1905, fu per Franco Albini il ricordo più felice della sua vita. Poi arrivò la prima guerra mondiale, il tracollo finanziario del padre e il trasferimento a Milano. Qui il ragazzo con i calzoni corti e l’occhio lungo, sostituito il carboncino con squadre e matita, avrebbe messo in riga un intero secolo, il suo. Con la fantasia dell’artista e la razionalità del costruttore.
Di lui si scrive che era architetto, progettista, designer. Di lui si dice che era silenzioso, intransigente, perfezionista. Di lui il figlio Marco dice che era un uomo che aveva una fede quasi mistica nel ruolo sociale dell’architetto: «Credeva nell’arte come espressione di libertà, semplicemente». Franco Albini fu l’architetto della leggerezza, delle linee ferme, semplici, correttissime. Diceva: “Sono i vuoti che occorre costruire, essendo aria e luce i materiali da costruzione”. Anche il figlio Marco, che oggi ha 66 anni, è architetto. «Chi era mio padre? Un uomo che negli anni Trenta, da adulto, visse una stagione sfortunata dal punto di vista politico ma di grande entusiasmo dal punto di vista culturale. Un’epoca irripetibile di collaborazione tra pittori, grafici, designer uniti dalla stessa visione sociale e morale dell’arte. Uomini che non volevano fare dei prodotti solo belli da vedere ma anche utili. Sognavano un’arte e un’architettura che fosse per tutti, quindi ridotta all’essenziale, fatta dal minimo possibile”.
Marco Albini fu uno di quei sognatori. Diploma classico al Berchet, facoltà di architettura al Regio Politecnico di Milano, la laurea nel ’29, gli inizi nello studio di Giò Ponti, la conversazione-conversione con Edoardo Persico che lo avvicina al razionalismo e al gruppo di Casabella. Poi l’apertura di uno studio, nel ’31, insieme a Renato Camus e Giancarlo Palanti con i quali si occupa di edilizia popolare partecipando al concorso per il quartiere Baracca a San Siro e poi realizzando i quartieri dell’Ifacp: il Fabio Filzi, il Gabriele D’Annunzio e l’Ettore Ponti.
«Dopo venne la guerra. Papà, che di fisico è sempre stato gracile, fu esonerato. Ma a Ponte dell’Olio, sulle colline piacentine dove era sfollato con la famiglia, fece da collegamento tra i partigiani dell’Appennino e Milano. Mia mamma racconta che spesso andavano e tornavano in giornata in bicicletta». Poi, finita la guerra, gli anni della ricostruzione e del boom. Nel ’45 Albini è tra i fondatori del Movimento studi architettura, un importante momento di rinascita culturale, e nel ’52 diventa socio di Franca Helg. I due divideranno lavoro e gloria. «Uno aveva la testa nei progetti, l’altra nell’amministrazione e nella promozione. Prima che arrivasse lei, capitava che a fine mese non si riuscissero a pagare gli stipendi perché papà si era dimenticato di chiedere le parcelle ai clienti». Così nel lavoro e così in famiglia. «Mio padre non aveva il senso del denaro. Aveva scelto una vita decorosa ma modesta. Diceva: “Io non ho desideri di possesso”. Si figuri che ha sempre abitato in affitto, nonostante l’insistenza degli amici perché acquistasse un appartamento in uno degli edifici che costruiva. Niente da fare. Diceva che la proprietà non rende liberi, anzi obbliga le persone a occuparsi delle cose. Ha abitato prima in una casa in via De Togni, una traversa di San Vittore, e poi poco lontano, in via De Grassi, ma solo perché la mamma voleva un terrazzo. Sempre in affitto. “Il mondo non lo devi limitare con la proprietà, altrimenti non lo vedi più”, diceva».
Lui il mondo lo vedeva bene. Vedeva il problema, intuiva la soluzione, stendeva il progetto. Un metodo di lavoro collaudato, infallibile, quasi noioso nella sua perfezione. Da qui nascevano le sue opere, oggi sui manuali di architettura: dal rifugio Pirovano a Cervinia a villa Olivetti a Ivrea, dagli uffici dell’Ina a Parma alla Rinascente di Roma. Difficile confrontarsi con un padre così, uno che lo stesso Renzo Piano, suo pupillo, ha sempre chiamato Maestro. Cosa può insegnare un uomo del genere? «Tante cose, ma due fondamentali. Una, che si applica anche alla vita, è la lezione della modestia, utilissima in quest’epoca così esibizionista, soprattutto in architettura. La sua regola era: “Non celebrarsi mai”. La seconda, una lezione di metodo. Attenzione: non di stile, parola che odiava, ma di metodo, ossia un modo di lavorare che proceda passo dopo passo».
Padre e figlio hanno lavorato insieme, passo dopo passo, dal 1965 alla metà degli anni Settanta. Abbastanza per assimilare il metodo-Albini, abbastanza anche per non sopportarsi più magari... «No guardi, mai litigato con mio padre sul lavoro. Vede, lui non accettava il “mi piace” o il “non mi piace”. Per lui bisognava giustificare tutto. Davanti a un progetto o a un’idea ripeteva sempre: “Ma perché?”. E siccome aveva l’erre moscia, arrotolava questi “Ma perché?” uno dopo l’altro, e in studio lo prendevamo in giro. E comunque, vista la sua logica ferrea e le sue motivazione sempre ragionevoli, alla fine non c’era modo per litigare».
Franco Albini era un uomo logico contro l’illogicità, d’ordine contro il disordine, semplice contro gli orpelli, silenzioso contro le chiacchiere. «Sì, mio padre era un tipo di poche parole ma taglienti, caustiche tanto da far male a volte. Quando nel ’65 gli chiesero di abbandonare Venezia, dove insegnava architettura, per venire al Politecnico di Milano, accettò. Ma quando cominciò a soffiare il vento della rivolta, e le motivazione della protesta, da didattiche divennero politiche, se ne pentì amaramente. Continuò il suo lavoro, tentò il dialogo con il movimento studentesco che voleva fare tabula rasa, e alla fine, riferendosi all’università, sentenziò: “Milano è un inferno”. Colse con una frase il declino di un mondo che cambiava, in cui non ritrovava più il ruolo sociale del proprio mestiere».
Franco Albini colpito dalla malattia nel 1970, si ritirò dalla professione poco dopo. Morì nel ’77, nella sua Milano, città della quale detestava la millanteria e le gradassate tipiche dei nuovi ricchi, e della quale amava l’aspetto più provinciale, segreto: “Gli piacevano i palazzi e le case che sapevano nascondere all’esterno la bellezza che avevano dentro, come i giardini. Ecco, apprezzava l’atteggiamento, un po’ aristocratico, quasi snobistico se vogliamo, di chi sa mantenere il riserbo».
Da artista aristocratico e riservato, a Milano lasciò il segno: gli edifici del quartiere Mangiagalli per lo Iacp a Milano, la casa per lavoratori Incis a Vialba, l’allestimento, nel 1962, delle stazioni della linea uno della metropolitana («l’opera di cui andava più orgoglioso»), gli uffici della Snam a San Donato Milanese, senza contare il designer: dalla prima libreria in tensostruttura alla celebre poltrona Fiorenza, dalla sedia a dondolo per Poggi al televisore Brionvega esposto alla Triennale del ’64.

Un genio capace di far arrampicare la sua fantasia su diverse scale di intervento, “dal cucchiaio alla città”. «Lui non è mai stato un teorico dell’architettura. Lui parlava solo di cose semplici, pratiche, da fare. Così nascevano i lavori. È questo il talento, come diceva papà».

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