Incontrai Padre Pio da Pietrelcina a San Giovanni Rotondo una mattina del settembre 67. Ne scrissi sul Corriere, di cui ero inviato speciale. Mi sia permesso un ricordo di quellincontro davvero straordinario, doverosamente precisando che ne farò una rievocazione a memoria perché non ho il tempo di recuperare lo scritto di allora.
Fu Michele Mottola, il grande redattore capo di via Solferino, a inviarmi in Puglia per uninchiesta sulla condizione culturale e sociale di quella regione meridionale. Con Mottola cera un rapporto amichevole perché avevo collaborato con lui per un paio danni quando approdai al Corriere da Roma, chiamato da Missiroli, che lo dirigeva.
Provenivo dal Tempo di Renato Angiolillo, dove il mio soggiorno era stato decennale, fino a diventarne redattore capo a 25 anni, e dal Giornale dItalia dovero stato solo pochi mesi sotto la direzione di Santi Savarino e lamministrazione del mitico Balella, chera stato presidente di Confindustria durante il fascismo e, come componente del Gran Consiglio, il 25 luglio votò lordine del giorno di Dino Grandi.
Me ne andai dal Corriere nel 1961, chiamato a dirigere il Corriere Lombardo, dove rimasi cinque anni. Il giornale di via Solferino richiamò Alfio Russo che negli anni Sessanta fece fare al giornale un salto di ben centomila copie in più. Era il Corriere dei due dioscuri, Mottola e Afeltra, una a capo della redazione della gloriosa testata di Albertini, laltro a capo di quella del Corriere dInformazione, giornale della sera. Spedendomi in Puglia, Mottola mi disse: «Se ti capita, vai a dare unocchiata al frate miracoloso di San Giovanni Rotondo. La sua popolarità sta crescendo in Italia e addirittura nel mondo intero».
La prima tappa la feci a Foggia, dove anche il corrispondente locale, uomo di brillante cultura e sensibilità, mi suggerì a sua volta di cominciare il mio itinerario pugliese con una visita a San Giovanni Rotondo. «Conosco alcuni dei frati - mi disse - Non sarà difficile avvicinare il santo. Ne vale la pena, credimi». Disse proprio così: il santo.
Laico, ma con dentro umori e sentimenti ispiratimi dalla mia famiglia cattolica della provincia viterbese, confessò che lidea di entrare in contatto con un frate in odore di santità, addirittura miracoloso secondo la credenza popolare, mi affascinava. Ero un giornalista e mi solleticava la prospettiva di avvicinare il frate che suscitava tanta devozione, vederlo muoversi, sentirlo parlare, scrutarne le mani stigmatizzate, sanguinanti, per poterne scrivere sul giornale.
San Giovanni Rotondo non era ancora quel chè diventata oggi, una Lourdes affollata di pellegrinaggi massicci.
La chiesa era ancora quella vecchia del convento dei francescani, non si parlava ancora di una basilica da far progettare al grande architetto Piano, il paese non era più di un villaggio ma neppure una città qual è oggi, cerano solo alcuni alberghetti gestiti alla buona.
Andai alla Messa officiata da Padre Pio. La chiesa non era tutta piena. Saranno state le dieci del mattino. Molte donne col capo coperto di veli o scialli quasi tutte con rosario tra le mani, non molti gli uomini adulti, qualche bambino accanto alle mamme o alle nonne. Con la collaborazione di due confratelli, il «santo» celebrò in latino. Di quel che diceva si capiva poco, quasi mormorava il formulario liturgico. Nei fedeli presenti prevaleva il silenzio, cera quasi unestasi, addirittura un rapimento mistico, tutti presi dalla contemplazione religiosa.
Mero posto molto avanti, tra i banchi, per poter osservare luomo miracoloso. In me prevalevano la curiosità e linteresse professionali. Volevo vedere e capire per poterlo poi raccontare ai miei lettori. La mia attenzione era volta soprattutto alle mani del frate, ne seguivo i movimenti.
Erano mani guantate. Mi faceva un certo senso pensare che quelle stigmate sanguinanti coperte da guanti marrone fossero la ripetizione dello strazio di Cristo sulla croce del Golgota.
Non lo nascondo, mi era difficile crederci. E però intorno a me sentivo tanta fedeltà in quel miracolo, Avvertivo intensamente la profonda religiosità di tutta quella gente semplice, che quando la messa finì esplose in preghiera ad alta voce.
Fui ammesso, con un piccolo gruppo di fedeli, una quindicina non di più, in una saletta, che era lanticamera delle celle dei frati nel convento. Padre Pio, visto da vicino, mi apparve come una di quelle immagini, i cosiddetti santini, che tante volte da ragazzo merano passati per le mani donatimi in occasione di cerimonie religiose alle quali accompagnavo la mamma o la nonna nel piccolo mondo rurale della mia infanzia. Quel viso, quegli occhi, quella barba, quel suo fare burbero, un po rozzo, mi fecero sì pensare al mio piccolo mondo contadino, alla semplicità scomparsa della mia vita nei vari giri del mondo fatti da inviato di giornali, quasi vergognandomi del mio scetticismo.
Confesso che quellincontro, quel contatto umano col «santo» non mi suscitò particolare commozione. Il frate non fu gentile con nessuno e questo non mi turbò. Io, si può dire, fui ignorato, né tentai del resto di rivolgergli parole o domande; mi interessava osservarne il comportamento con quei suoi accorati fedeli.
Cera un vecchio sacerdote che tentava di avvicinarglisi devotamente, ma il «santo» lo trattò male: «Ma tu che vuoi», disse. Vidi lacrime sul volto del vecchio prete. Solo una carezza vidi fare da quelle mani a una donnetta incappucciata in uno scialle nero, di cui vidi appena gli occhi in lacrime di gioia. Qualcuno riuscì a baciare le mani del frate, ma a fatica perché lo stigmatizzato rifuggiva da qualsiasi contatto carnale. Ci fu molta confusione in quellincontro, tanto vociare, tra preghiere e domande senza risposta. Poi il frate, dimprovviso, sparì attraverso una porta che i frati provvidero a chiudere saldamente dallinterno.
Così finì il mio incontro col frate oggi ufficialmente San Pio del quale dora in poi la folle dei fedeli potranno ammirare il corpo miracolosamente intatto. Allora, per me, insisto doverosamente nel confessarlo, non fu un momento di particolare emozione.
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