«Il ricordo di mio padre e della sua morte era come una scatola chiusa in un armadio, perché tenesse dentro di sè tutto il dolore e la rabbia che porta. Poi, il 30 aprile di due anni fa, ci è arrivata la lettera della Provincia di Milano. E quella scatola si è riaperta, allimprovviso, per me, per mio fratello e per mia madre».
Oggi Roberto Saporito è un uomo: ma i giornali ingialliti del novembre 1977 ce lo mostrano ancora bambino, in una delle ultime immagini felici della sua infanzia. Sono lui e suo fratello, con i genitori. Il padre è un uomo con i baffi, dallaria allegra. Faceva loperaio, Giuseppe Saporito. Fino al mattino di novembre in cui passò in via Castel Morrone davanti allufficio postale. Accanto a sè aveva il fratello di Roberto, Davide. Dentro l'ufficio, un gruppo di rapinatori stava dando lassalto alle asse. A guidare lassalto, due militanti dei Nap, i Nuclei armati proletari, la banda armata dellultrasinistra che aveva accolto tra le sue file intere schiere di criminali comuni politicizzatisi in carcere. La rapina venne sventata dallintervento di un poliziotto. I rapinatori scapparono. Uno dei nappisti, Alfeo Zanetti, bloccò la macchina di Saporito, lo colpì col calcio della pistola e si diede alla fuga, con accanto il padre e il bambino. Quando un metronotte aprì il fuoco, una pallottola centrò al cuore loperaio innocente.
Per più di trentanni, incredibilmente, Giuseppe Saporito non è stato riconosciuto dallo Stato come una vittima del terrorismo. Sua moglie e i suoi figli, un po alla volta, si erano rassegnati al loro destino di vittime di serie B. Poi è arrivata la lettera, firmata da Filippo Penati, allora presidente della Provincia, che li invitava ad una cerimonia con altri parenti di caduti degli anni di piombo. E lì, dice Roberto Saporito, «ci siamo sentiti presi in giro». Così hanno riaperto la scatola della loro memoria, e hanno iniziato di nuovo a chiedere giustizia.
Nella sentenza con cui il 31 maggio 1978 la Corte dassise, presieduta da un giovane Francesco Saverio Borrelli, condannò gli autori della rapina, si cercherebbe invano traccia della matrice politica dellimpresa. Ma basta leggere i verbali del processo dappello per trovare, crudi ed esplicite, le rivendicazioni dellimpresa in chiave rivoluzionaria: quando il giudice gli dà la parola per le sue dichiarazioni, Alfeo Zanetti si alza e dice «lascio la parola al proletariato armato», mentre il suo compagno Enzo Caputo prova a leggere un documento politico, che si cocnlude «la giustizia borghese è una truffa, viva le organizzazioni comuniste combattenti». E daltronde nella casa di via Padova dove la Digos aveva localizzato Zanetti, lo stesso giorno della rapina, erano state trovate una montagna di pallottole dum dum, insieme agli scritti di Trotzki su «Terrorismo e comunismo», e il libro «Cronache e documenti delle Brigate Rosse».
Eppure, a trentaquattro anni di distanza, i Saporito per lo Stato non esistono. Le piccole, doverose provvedenze che la Repubblica riserva alle vittime degli anni più bui della sua storia, a loro non vengono concesse. Ora ci stanno riprovando. Il procuratore aggiunto Armando Spataro, che quegli anni se le ricorda bene, ha scritto destra e manca, chiedendo agli organi di polizia di spiegare chi fossero davvero Zanetti e Caputo, e le risposte non lasciano aditi a dubbi: la Digos definisce Zanetti «noto appartenente ai Nap», i carabinieri del Ros ricordano che, ad Asti, Zanetti era stato trovato in un appartamento con due pistole e i documenti della «scuola quadri» dei Nuclei armati proletari.
Ma al Viminale, dove una commissione vaglia ancora le richieste dei sopravvissuti di quella lunga notte, sembra non bastare.
«Mio padre ucciso dai terroristi e dalloblìo»
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