Politica

Missione Leonte al via con gaffe del premier

Fabrizio de Feo

nostro inviato a Brindisi

Le avanguardie della missione italiana lasciano il porto di Brindisi e si dirigono verso il mare aperto. È il segnale che l'operazione Leonte, segnata nella sua genesi da polemiche, perplessità e ambiguità, è ormai partita con i primi 2.150 militari (803 quelli che saranno dislocati sul terreno) del nuovo contingente Unifil in navigazione verso le coste libanesi di Tiro, la città nei dintorni della quale si svilupperà la futura area di responsabilità italiana.
La scommessa al tavolo della pace è di quelle pesanti. E così Romano Prodi e Arturo Parisi, 20 miglia a largo della costa pugliese, atterrano con un elicottero militare sulla portaerei Garibaldi per la cerimonia del saluto in mare agli uomini del contingente. Il colpo d'occhio è suggestivo e dai contorni neanche troppo vagamente muscolari: l'ammiraglia della Marina militare solca l'Adriatico affiancata dalla corvetta Fenice e dalle unità da sbarco San Giorgio e San Giusto in una sorta di marcia sincronizzata tra le onde del Mediterraneo. Sulla pista di atterraggio della Garibaldi, intanto, scatta il saluto alle autorità di un centinaio di marinai e di altrettanti avieri e lagunari della Serenissima a regalare ulteriore solennità al momento. Il capo di stato maggiore della Difesa, l'ammiraglio Giampaolo Di Paola, è il primo a prendere la parola di fronte a una platea composta dai vertici di tutte le varie armi. Lo fa per invitare i militari italiani a «vivere con orgoglio la missione». E augurare «buona fortuna e venti favorevoli» ai nostri ragazzi.
Il microfono passa poi a Romano Prodi. Con espressione solenne e retorica d'ordinanza il presidente del Consiglio battezza quella che definisce «una missione delicata e di enorme portata storica». «Le regole d'ingaggio sono scrupolose, robuste, inequivocabili». E poi: «Siete la testimonianza di una profonda coesione nel Paese, senza distinzione tra maggioranza e opposizione. Questo è un momento che unisce il governo e il Parlamento. L'Italia vi guarda con affettuosa attenzione e trepidazione e vi è vicina». Prodi - che nel pomeriggio è protagonista di un colloquio telefonico con il presidente siriano Assad - inciampa, però, in un poco onorevole distinguo quando ricorda che «i militari italiani si sono fatti onore in molte missioni: Kosovo, Afghanistan e Bosnia solo per citarne qualcuna». Un elenco in cui l'assenza della parola Irak fatica a essere derubricata come semplice dimenticanza. Chiude il cerchio dei discorsi ufficiali il ministro della Difesa. Arturo Parisi ricorda quando, 24 anni fa, dalle banchine di Brindisi salparono le navi dirette a Beirut. «Aveva inizio il primo grande impegno operativo fuori dal territorio nazionale dopo la fine della seconda guerra mondiale. Una missione che si meritò apprezzamento incondizionato in campo internazionale. Oggi salutiamo questo primo scaglione della nuova missione di peace keeping, una missione senza dubbio tra le più delicate e impegnative dalla fine della seconda guerra mondiale. Una missione lunga, rischiosa, costosa ma tuttavia doverosa». Una missione che, secondo Parisi, è giustificata e non contraddice l'articolo 11 della Costituzione in cui è messo nero su bianco il ripudio la guerra.
Conclusa la cerimonia e la passerella d'onore, nella successiva conferenza stampa emerge qualche elemento di novità sui contenuti della nostra missione. Parisi conferma che con l'assunzione del comando della missione Unifil, nel febbraio del prossimo anno, l'impegno dell'Italia «sarà destinato ad aumentare». Di quanto? «Non sappiamo ancora, non è stato deciso nel dettaglio». Il capo di stato maggiore della Difesa, Di Paola, precisa, invece, che l'area di responsabilità degli italiani sarà una sorta di rettangolo di 15x20 chilometri tra l'attuale settore della missione Unifil, il fiume Litani (a nord) e il mare (a ovest). Un'area di responsabilità che potrebbe in futuro anche cambiare. Le domande si concentrano, però, soprattutto su un grande interrogativo irrisolto: le regole d'ingaggio da applicare per il disarmo delle milizie Hezbollah. Una questione su cui continuano ad addensarsi dubbi e nuvole nere. Il ministro della Difesa si muove sul filo dell'indefinitezza. Cita il dettato della risoluzione Onu. Sottolinea la precondizione del verificarsi di «atti ostili» da parte degli Hezbollah. Ma poi ammette che «saranno determinanti le decisioni dei comandanti sul terreno». Come dire che sarà la logica militare a dettare i comportamenti. E inevitabilmente la missione di peace keeping potrà facilmente cambiare identità e trasformarsi in missione di peace enforcing.

Con buona pace della nostra sinistra parlamentare.

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