La missione Usa per esportare la democrazia

Mentre la sinistra lobotomizzata sfilava per le vie cittadine inneggiando alla pace e ingiuriando gli Stati Uniti, George Bush presentava al Paese e al mondo il documento sulla sicurezza nazionale ribadendo l’intenzione di volere contribuire attivamente alla diffusione della democrazia ritenendo ciò «la più efficace misura di lungo termine per rafforzare la stabilità internazionale, ridurre i conflitti regionali, opporsi al terrorismo e all’estremismo che lo sostiene, estendere pace e benessere». Visto che la sinistra non propone alternative se non quella delle «Dieci, cento, mille Nassirya», non sarebbe logico dar fiducia a Bush o almeno mettere alla prova la buonafede americana?


Certo che sarebbe logico, caro Martolini. Ma non si può chiedere alla sinistra piazzaiola e arcobaleno di ragionare. Sarebbe come voler cavare sangue dalle rape. Chiunque non sia rimbambito dagli slogan e conosca un po’ di storia sa che a differenza di altre nazioni e altri regimi la scelta degli Stati Uniti è sempre stata quella della democrazia e il documento sulla sicurezza di Bush si limita a confermarla. Cosa fu la guerra fredda se non l’immane scontro fra chi difendeva il sistema democratico e chi impegnava tutte le sue forze per sopprimerlo? Chi ha vissuto quegli anni non può dimenticare che si era ogni giorno in prima linea e che la libertà era legata a un filo e che bisognava resistere a tutti i costi e vedersela non con i bambocci e gli esangui intellettuali marciatori della pace, ma con le catafratte falangi del Pci dietro le quali c’era l’Armata Rossa, c’erano i cingoli dei carri armati con la falce e il martello dipinti sulla torretta. Ci andò bene non solo perché sconfitti (o, come si preferisce dire, liberati) dall’America che riservava ai vinti la democrazia, mentre l’Unione Sovietica li asserviva alla dittatura, alla tirannia del comunismo coatto. Ma anche e soprattutto perché l’America era allora quella che è oggi, convinta che la democrazia va aiutata, difesa, alimentata. Pochi ricordano e moltissimi non vogliono ricordare la turpitudine che diede l’avvio alla guerra fredda. Fu quando Stalin, ritenendo quella ancorché minuscola porzione di democrazia immersa nella Germania comunista (che sarebbe di lì a poco diventata lo smisurato gulag chiamato Repubblica Democratica Tedesca) una intollerabile provocazione, decretò il blocco di Berlino. Detto più chiaramente: intendeva affamare due milioni e mezzo di civili, in massima parte anziani, donne e bambini, per costringerli a convertirsi al comunismo.
Era il 26 giugno del 1948. Tutti gli accessi alla città furono sbarrati e i convogli di vagoni ferroviari, di camion e di chiatte fluviali che provenendo dalla Germania libera quotidianamente alimentavano Berlino dovettero fare dietrofront. Per far giungere alla città viveri, medicinali e carbone restavano appena i «corridoi» aerei. Non solo per quegli anni e con i velivoli allora a disposizione, ma in senso assoluto l’«Operazione Vittles» (vettovaglie) immediatamente messa in atto dall’America fu il più colossale e complesso ponte aereo mai realizzato. Nei dieci mesi e mezzo del blocco gli aerei compirono quasi 400mila voli: all’aeroporto berlinese di Tempelhof ne atterrava uno ogni tre minuti, e questo quotidianamente. Oltre al cibo, al latte fresco per i bambini e ai medicinali, furono così trasportate anche un milione e mezzo di tonnellate di carbone (i sovietici avevano interrotto l’erogazione sia del gas che della luce). Baffone, che contava di piegare i berlinesi in un paio di settimane, rimase esterrefatto.

Era convinto che l’America non avrebbe sprecato tanta energia e dollari per difendere qualche chilometro quadrato di democrazia. Sbagliava. L’11 maggio del ’49, a mezzanotte, tolse il blocco. L’America aveva vinto il primo round di un match che alla fine avrebbe visto il comunismo kappaò.
Paolo Granzotto

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