Non è più tempo, questo, di supereroi. L’ultima volta che l’hanno visto era a un funerale. Entrò, tra i bisbigli della folla. Aveva indossato il suo vecchio costume, quello rosso. Le mani tremavano, come accade ai vecchi malati di Parkinson, grandi o stupidi che siano. Era leggermente curvo, ma riusciva a nascondere i suoi ottanta e passa anni. Camminava, appoggiandosi a un bastone di legno, di quelli antichi, nodosi. Questo era ciò che restava di Superman, il decano di tutti loro, il padre spirituale, quello che ancora cercava disperatamente di conservare e tramandare la vecchia cultura. Era il più grande dei figli del Novecento, ma questo nuovo secolo non gli apparteneva.
Gli altri, più giovani, stanno messi peggio. Batman è caduto nel deragliamento morale di un’era dove il confine del piacere è sempre un po’ più in là del tuo orizzonte. È un omosessuale senza amore, troppo egoista per sopportare il masochismo di Robin. Si è pentito, redento, con il moralismo di chi cammina avanti e indietro sul binario della bisessualità. Un uomo senza coraggio e dignità. Namor, principe di Atlantide, mette in mostra i suoi pettorali in tv, come quelle vecchie star del rock, come un Mike Jagger fuori tempo massimo, seducente come un sacco di patate. Mystique, la mutaforme, un tempo nemica degli X-Man, ora si arrabatta come imitatrice negli show del sabato sera. Non c’è identità. Non c’è senso nella sua vita.
È la condanna consumistica dell’Uno, nessuno e centomila di Pirandello. Tutti noi siamo così, merce da macero negli sguardi degli altri. «In certi momenti, in certi punti della città, sembrava che tutti flirtassero con tutti. Uomini, donne, tutti con tutti. Nessuno faceva sul serio. Flirtare a New York era una piacevole nevrosi, un riflesso quasi compulsivo, una forma economica di gratificazione».
Eccoli i supereroi. Qualcuno è andato per età, qualcun altro per solipsismo. C’è chi insegue la fede, perso in una teologia dove il passato è solo peccato e il futuro una camera oscura senza fotografie. C’è chi recita se stesso, come l’ultimo Arlecchino, ancora indeciso sul come e quando, e a chi, consegnare l’eredità della maschera e del bastone. Eccoli i supereroi, quelli che un tempo avevano dato una mappa al Novecento e poi, dopo aver bruciato tutti i sogni e le illusioni, hanno lasciato su questa terra solo un cumulo di macerie, senza punti cardinali, senza più Est e senza più Ovest. Tutti raminghi, affamati di identità, ubriachi di qualsiasi cosa che per un attimo possa dare un senso a questa esistenza che balla precaria dentro il vuoto d’aria della storia e in cerca perenne di una bussola che non funziona. In questa commedia amara di eroi e intellettuali, scienziati e predicatori, artisti e mercenari l’unica lacrima viene voglia di versarla per Reed Richards, Mister Fantastic, l’uomo gomma dei Fantastici Quattro, sobrio custode di tutto ciò che in questo mondo conserva ancora la parola dignità. Reed Richards, l’ultimo borghese. Il guaio è che neppure lui si salva. Basta una ragazzina di 27 anni per mandarlo in tilt, l’etica sconfitta dalla disillusione, l’amore dal cinismo. Il suicidio wertheriano di un vecchio ultra sessantenne è il prezzo da pagare per due generazioni che non si comprendono. È lo scontro tra un’idea di amore che ricerca l’eternità e un amore liquido, a tempo determinato, che conosce il fascino, ma non il dovere. Mister Fantastic s’innamora, dopo il divorzio con Sue, la donna invisibile, di un’astronauta, una che sogna di andare in alto e tutto il resto è solo un accessorio. Tu mi ami e io ti uso. A letto, per il piacere, per la carriera, per ammazzare la noia. Tanto tu sei “grande” e non soffri. Ecco come finiscono i supereroi, sommersi da monologhi come questo: «Con lui a volte si era persino lasciata andare. Peccato che Reed si fosse fatto tante fantasie. Gli uomini di quella generazione avevano qualcosa di egoista, venivano da un tempo avido, avevano attraversato un secolo in cui si pensava di poter conquistare tutto: libertà, fama, gloria pubblica e gioie private. Per come lei la vedeva, i tempi erano cambiati da un pezzo. E soprattutto le persone non potevano più possedersi a vicenda».
Quando Marco Mancassola ha scritto La vita erotica dei superuomini (Rizzoli, pagg. 569, euro 21,50) sapeva che stava raccontando il tempo intorno a lui. Come gli eroi di Omero, Superman e gli altri sono lo specchio degli umani, sono le loro paure, miserie, invidie, meschinità. È la cultura pop la nostra epica. È il modo per leggere questa stagione dove il vecchio non passa e il nuovo non ha la forza di arrivare. È quello che ti permette di raccontare questi anni indefiniti, utilizzando come testimoni di ciò che siamo le proiezioni del sovrumano. È come guardare la vita attraverso uno schermo piatto, con una dimensione di pollici esagerata. Solo che adesso, su questo megaschermo, non viaggiano più i superuomini, ma i quotidiani personaggi dei reality show. Loro hanno preso il posto dei supereroi, fino a rendere mediocre perfino la fantasia. E la colpa è anche di gente come Batman e Namor, che hanno trasgredito alla regola aurea del fumetto popolare: grandi poteri implicano grandi responsabilità. È l’etica che ci ha fottuto. Questa postmodernità in cui viviamo è troppo pesante per la nostra coscienza. La morale dei superuomini non può essere ad altezza d’uomo. È questo il nostro dramma, la nostra fuga verso il nichilismo.
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