Mistero a Monza: strangolata in casa sul letto a 18 anni

Una sciarpa l’arma del delitto. Segni di violenza sul corpo della ragazza, originaria del Bangladesh. Per un litigio aveva abbandonato i genitori

Alle dieci di sera, con i lampeggianti dei carabinieri che proiettano ombre spettrali sulla casa di ringhiera, c’è già chi tira conclusioni. Troppe se ne sono viste, per non cadere in tentazione: lei, la ragazzina di 18 anni del Bangladesh, punita nell’ambito familiare per la sua imperdonabile scelta dei modelli occidentali. Ai nostri schemi fissi, coniati in tanti anni di immigrazione, corrisponde perfettamente. Più o meno, gli elementi base ci sono: il litigio di quindici giorni fa con i genitori, nella casa in provincia di Varese, quindi la decisione di venire a vivere con lo zio qui a Monza, nello sprofondo brianzolo di San Rocco, quartiere di immigrazione storica, negli anni Sessanta dal Meridione, negli anni Novanta dall’altra metà del mondo. Ma nessuno, quando la notte è già calata, può legittimamente tirare conclusioni simili. Su tutta questa storia, purtroppo, aleggia qualcosa di molto meno sociologico e di ben più sordido.

Un elemento è certo: la ribellione della ragazzina contro i genitori, gente regolare che ha un lavoro fisso, dura pochissimo. Nemmeno un paio di settimane. Poi, nella serata di un gelido gennaio italiano, la ritrovano strangolata nel nuovo rifugio, la casa dello zio, distesa sul letto, in pigiama, con una sciarpa stretta al collo.

Appartamento in ordine, nessun segno di lotta. Nessun segno di effrazione all’ingresso. In tutto il caseggiato di via D’Annunzio numero 12 nessuno ha sentito niente. Né tanto meno la gente del luogo può dire qualcosa di più sulla strana coppia del primo piano, zio e nipote: erano arrivati da poco, in queste realtà ciascuno fa la propria vita e ci si può scoprire sconosciuti anche dopo anni.

Allora, come ricostruire gli ultimi minuti di questa vita spezzata, così presto e così male, nelle pieghe di un’immigrazione tanto difficile? Inutile girare attorno alla sostanza: il magistrato dottor Pepè e i carabinieri di Monza vogliono la spiegazione dallo zio, poco più che trentenne, sposato e padre con la famiglia ancora in patria, autore della chiamata poco prima delle 18. In quella telefonata dice di aver ritrovato la nipote morta in casa. Ma è chiaro che gli inquirenti non lo tengono in caserma fino a notte fonda, mettendolo a confronto con i genitori della ragazza appena arrivati da Varese, soltanto come testimone. É lì, sotto torchio per ore, con un sospetto terribile a pendergli sul capo.

L’idea che sappia molto di più, perché molto di più ha fatto, trapela da tutti i commenti a mezzavoce di chi indaga sul posto. É l’altra chiave possibile, molto più plausibile della punizione di stampo religioso, per la serie inconciliabilità di modelli troppo lontani. É la chiave di un giallo decisamente miserabile e squallido, con una povera ragazza nel fiore degli anni strangolata in casa, con uno zio che rischia veramente grosso, se solo si rivelasse vera l’ipotesi di una sua aggressione a sfondo sessuale, finita male per le resistenze della nipote.

Quando su Monza cala la notte, e con essa il gelo pesante dell’inverno lombardo, nessuno ancora conosce la verità. Gli interrogatori vanno avanti ad oltranza. Fuori, nell’attesa, meglio fermare sul nascere la facilona tentazione di catalogare nel comparto «effetti collaterali dell’immigrazione» questo spietato omicidio.

Lei è del bangladesh, non è dei nostri, non avrà le attenzioni di Garlasco e neppure le curiosità internazionali di Meredith. É anonima e sconosciuta, chiusa nel suo mondo lontano ed estraneo: ma è una ragazza di diciotto anni morta strangolata, maledizione. Non c’è classifica di dignità che possa in qualche modo farcela sentire meno cara.

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