La moglie della vittima

nostro inviato a Torino

«Lo ammazzerei io quell’uomo. Con le mie mani». Sono le dieci del mattino quando Laura Saccinto e nonna Maria Rosa scendono dall’appartamento di via Monterosa 147 per andare verso l’ospedale San Giovanni Bosco dove è ricoverata la loro figlia e nipote Giorgia di16 anni, in prognosi riservata dopo l’intervento cui è stata sottoposta l’altra sera. Si stringono una all’altra, con gli occhiali neri per coprire gli occhi stravolti dalla disperazione e rifanno quella maledetta strada dove l’altro pomeriggio Giorgia e suo padre, Lorenzo Bollati, sono stati accoltellati da Antonio Olivieri, 43 anni, in cura ai servizi psichiatrici. Un raptus di follia che è costato la vita al marito di Laura e ha lasciato quella della ragazza appesa a un filo.
«Lo ammazzerei io. Capito? Ecco quello che farei», ripete con rabbia nonna Maria Rosa, la voce che trema e il volto tirato. Mentre Laura Saccinto qualche passo più avanti la ascolta e annuisce. Si passa un fazzoletto sugli occhi. Perché anche lei vorrebbe che l’assassino di suo marito facesse la stessa fine. Abbassa lo sguardo e come per aggrapparsi per un istante all’unico barlume di speranza rimasto, inizia a telefonare. «Ora Giorgia sta meglio ed è la sola cosa che conta», ripete con un filo di voce. «Adesso sta meglio», sussurra a chi l’ascolta dall’altro capo della linea. «Ha chiesto qualcosa. Oggi arriveranno anche le psicologhe». Si ferma un momento prima di scomparire nel reparto di terapia intensiva e ha soltanto la forza di chiedere e implorare di lasciarla stare. Nessuno può immaginare cosa voglia dire perdere un marito perché stava cercando di impedire che un delinquente gli rubasse l’auto. Nessun può capire cosa voglia dire stare qui al capezzale della figlia, pregando che riesca a sopravvivere a quelle coltellate. E non bastano le braccia di tutta la sua famiglia per sorreggerla. «Perché non l’hanno fermato? Ditemi, come è possibile?». «Ma cosa ne volete capire voi? Cosa?», esplode nonna Maria prima di entrare di nuovo al numero 147 di via Monterosa. «Noi chiediamo soltanto giustizia e se c’è una cosa che i giornali e i media possono fare è chiedere giustizia», dice Marina, la cognata. Poi prova a pensare a quello che significa questa frase. Immagina cosa voglia dire avere fiducia nella giustizia e ricevere la giusta pena per il delitto commesso. Ma poi no, no. Non basta. Scuote la testa, torna indietro sul vialetto di casa. «Vorrei vederlo dilaniato, vorrei vederlo fatto a pezzettini. Ecco quello che vorrei, capito? Perché non si merita nient’altro che questo». Se c’era una persona buona, quella era suo cognato Lorenzo. Un’indole «pacifista», come la definisce Marina, che non avrebbe mai fatto male a nessuno. Ma lo strazio più grande è sapere che tutto questo dolore si poteva evitare. «Certo che è così. Per noi c’è stato un errore. Se lo avessero trattenuto i carabinieri… Io vorrei vederlo morto».

Quando pensa a come sarebbe vedere uscire Olivieri dal carcere, magari tra qualche anno, Marina ha un sussulto. Si stringe nel cappotto marrone, ricaccia indietro le lacrime: «Sarebbe come uccidere Lorenzo per la seconda volta».

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