Politica

Il monarca senza un regno

Le polemiche, le recriminazioni e le manovre provocate dallo strappo fra Rutelli e il Professore enfatizzano ciò che già si sapeva e che non si osava ripetere con la dovuta frequenza: che Romano Prodi, cioè, non è sufficientemente amato né nella sinistra radicale né in quella riformista e la stessa disaffezione è riscontrabile nei settori cosiddetti moderati del centrosinistra. Le cronache riferiscono una singolare convergenza di dissensi. Bastano poche citazioni. L’idea di una lista Prodi, ossia di un partito (...)

(...) che su misura si confezionerebbe questo pretendente senza (retro)terra politica fa sobbalzare Bertinotti, inquieta tanti diessini, provoca la critica demolitrice del dottor sottile Amato che, distinguendo fra sostanza e accidente, sentenzia: «I partiti non s’inventano». Nemmeno i leader delle coalizioni dovrebbero essere inventati. Oggi chi non prende le distanze dal Professore fa pressioni perché cambi strada, o, con discrezione, si tolga di mezzo.
A questo punto è giusto chiedersi: ma da quale designazione – se non plebiscitaria, almeno maggioritaria – è scaturita la candidatura di Romano Prodi? Chi l’ha mandato? Chi lo sostiene? Chi lo consiglia? Quale fondamento ha la sua personale monarchia?
Anche da sinistra possono venire spiragli di luce, elementi di verità che aiutano a capire. Giuseppe Caldarola, deputato ds e rispettabile riformista, ricostruendo l’origine della manifestazione contro Rutelli dell’altro giorno ha dichiarato: «Credo che la colpa vada cercata nel nuovo radicalismo italiano. Nei girotondi. Nel giustizialismo. Che sono sempre a caccia del nemico interno. Si stabilisce un totem, che in questo momento è Prodi, e chiunque non appaia conseguente viene considerato infedele». Dell’ossessione del tradimento, sempre a proposito dell’aggressione verbale a Rutelli, ha parlato anche Rina Gagliardi, di «Liberazione» individuando la radice dell’intolleranza soprattutto in un «estremismo girotondino, un “floresdarcaismo” che eredita il dipietrismo...».
Sono questi i seguaci, dunque? È questo il vento che gonfia – gonfierebbe – le vele del Professore? Qualcuno obietterà che Prodi non si è sbracciato per ereditare il sostegno del dipietrismo, che il suo stesso passato di boiardo – a volte chiacchierato e interrogato – non lo predestinava a diventare totem dei girotondini. Tutto vero ma certi incontri politico-umorali devono pur avere un fondamento logico. Le analisi citate sugli ultrà del Professore richiamano in effetti l’attenzione su un dato storicamente incontrovertibile, che Romano Prodi cioè vinse le elezioni del ’96 dopo una campagna elettorale segnata dallo tsunami giustizialista montato sulle dichiarazioni della cosiddetta superteste Omega. I processi costruiti sulle presunte rivelazioni si vanno sbriciolando, dopo dieci anni si accerta che non ci fu corruzione sul «lodo Mondadori» e che quindi il Cavaliere non aveva nulla da rimproverarsi, ma allora Prodi sfruttò il vento e il clamore. E il suo unico titolo di merito è di aver vinto quella volta, anche se poi perse tentando di governare, cercando di tenere unita una coalizione impossibile. I movimentisti, i girotondini, i giacobini (per i nomi sbizzarritevi pure) dicono d’essere razionalisti, in verità sono superstiziosi, sperano di usare Prodi come un corno di corallo. E i cosiddetti moderati del centrosinistra hanno accettato la sua candidatura senza slanci, perché non si sa mai: con lo stesso spirito con cui certi scommettitori scettici continuano a giocare un terno con cui una zia vinse trentacinque anni prima. Già, non si sa mai.
E se la forza di Prodi ormai si riduce soltanto ai girotondini e ai giustizialisti, oltre che ai dipietristi, si capisce perché in questi giorni ci siano tante attenzioni per Rutelli. Bravo Francesco – è un coro – bisogna difendere l’identità, tieni duro. Ma Rutelli merita tutti questi apprezzamenti, questi tributi alla sua indomita fierezza di margherito autonomo?
In fondo, come hanno ricordato molti esperti, l’autonomia di Rutelli riguarda soltanto la quota proporzionale, non mette in discussione il valore dell’alleanza. L’autonomia della Margherita sarebbe dunque frazionale, marginale, residuale. Nel maggioritario ci si può confondere anche col totem dei girotondini, ma nel proporzionale mai.


L’autoanalisi del centrosinistra deve continuare, possibilmente senza inganni.

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