Si sa: noi italiani teniamo molto al cibo, non solo nel senso che ci piace mangiare, ma anche che ci piace parlarne. Forse, allora, non è un caso che proprio in Italia siano nati e prosperino dei movimenti che mettono il cibo e l'agricoltura al centro del proprio programma. Primo tra questi è ovviamente Slow Food, ma ce ne sono molti altri, come i sostenitori dell'agricoltura biologica o degli acquisti a chilometro zero, gli attivisti anti-Ogm e infine i fan della cosiddetta decrescita. Tutti questi movimenti condividono l'idea che il solo cibo buono sia quello prodotto utilizzando sistemi «naturali» (no alla chimica nell'agricoltura!) e «tradizionali» (no alle sementi modificate!) che sappiano anche garantire un compenso più elevato agli agricoltori (sottraendo i loro prodotti all'intermediazione mercantile).
Invece, il sistema produttivo attuale (l'«agroindustria») non solo impoverirebbe i contadini per arricchire i «mercanti» e le multinazionali dei semi e della chimica, ma fomenterebbe anche le ingiustizie e le disparità di reddito, oltre ad inquinare, per produrre alla fine magari più cibo, ma di qualità peggiore. Ritornando invece alle piccole produzioni locali, tradizionali, «di qualità», non solo mangeremmo tutti, forse meno di oggi, ma meglio, ma allo stesso tempo risolveremmo anche tutti gli altri nostri problemi, dalla fame nel mondo alle disuguaglianze economiche, dall'inquinamento alle guerre, dalla perdita dei legami sociali alla scomparsa delle tradizioni e delle culture locali. Inoltre, si esaltano le virtù dell'autoproduzione (gli «orti urbani», ad esempio), del fai-da-te (povero è non chi non ha soldi, ma chi non è capace di far tutto da sé), del ritorno alla campagna e alla «cultura contadina», dei saperi «tradizionali», tramandati oralmente (che devono ottenere «pari dignità» rispetto alla cultura scientifica e libresca), della lentezza; e si negano i successi del progresso scientifico e tecnologico (la «Rivoluzione Verde» degli anni Sessanta, per esempio, viene definita un «disastro»), fino a mettere in discussione la scienza, la cultura, e le stesse idee di ragione e di progresso.
Quel che immediatamente colpisce in queste posizioni, oltre alla incomprensione di concetti economici basilari come reddito e consumo, è che si basano su autentiche distorsioni della realtà. Non è vero, per esempio, che il fast food sarebbe un'invenzione moderna e che la società industriale stia conducendo alla scomparsa dei tradizionali pasti consumati al desco familiare: al contrario, è il fast food che è sempre esistito (dall'antica Roma e dall'America precolombiana ad oggi), mentre ad essere una innovazione è proprio il pasto a tavola che, fino a tempi assai recenti, è sempre stato appannaggio delle sole classi privilegiate. Non è vero che il cibo di una volta fosse più buono e più sano di quello odierno; non è vero che la vita in campagna fosse più bella e meno pericolosa di quella in città (e non è vero che si mangiasse meglio in campagna); non è vero che le comunità preindustriali fossero più coese, egualitarie e pacifiche di quelle moderne; non è vero che le «tradizioni culinarie» oggi decantate siano antiche (per la maggior parte, sono nate dopo la Rivoluzione industriale). Soprattutto, l'idea che l'«agricoltura tradizionale» sia «naturale», un frutto spontaneo della «civiltà contadina» come contrapposta alla città, è completamente falsa. Non solo infatti, come spiegava Cattaneo, «l'agricultura esce dalle città», ma soprattutto, la storia dell'agricoltura è sempre stata un continuo succedersi di innovazioni e rivoluzioni tecniche e scientifiche: una «agricoltura tradizionale» è un controsenso.
Come spiegare tutto questo? Qui torna utile un vecchio concetto marxista, quello di ideologia, intesa come rovesciamento od occultamento della realtà, che spinge le persone a fare non solo ciò che è contrario ai loro stessi interessi, ma persino il contrario di quel che dichiarano di voler fare, al fine di mantenere inalterata la società vigente. Così vediamo i seguaci di Slow Food che credono davvero di cambiare il mondo seguendo le «buone pratiche alimentari» ma non si accorgono di essere solo una nicchia di mercato per prodotti di alto prezzo, alla portata solo di persone la cui capacità di spesa è fornita proprio dall'industria, dal commercio, dalla produttività e dalla «velocità» delle società contemporanee. E del resto, a pensarci, è davvero difficile credere che si possa debellare la fame nel mondo ammannendo ai poveri il lardo di Colonnata, la fragola di Tortona, la tinca gobba dorata del Pianalto di Poirino o la cipolla di Tropea, innaffiando il tutto col Barolo o lo Sciacchetrà. Eppure Slow Food (ma con la decrescita accade lo stesso) è riuscita a spacciare una iniziativa squisitamente commerciale (aumentare cioè le vendite di prodotti rari, che prima non trovavano sbocco per via del loro costo elevato, e che può quindi riuscire solo in quanto è comparsa, grazie all'industrializzazione e allo sviluppo economico, una cerchia abbastanza vasta di consumatori ricchi) per un'operazione che dovrebbe, non si sa come, restaurare la cultura preindustriale e contadina. La realtà, insomma, appare esattamente capovolta: è proprio l'esistenza della società industriale moderna (che si vorrebbe rovesciare) a rendere possibile la salvaguardia dei prodotti più rari e costosi; non è la riduzione dei consumi (che si auspica), ma il loro aumento, che permette di conservare le varietà e le razze a rischio. È una ben strana rivoluzione, questa, che non tocca affatto la realtà ma serve solo a lenire il senso di colpa che i ricchi nutrono per l'esistenza dei poveri.
Lo stratagemma geniale, che ha consentito di gabellare queste posizioni come «progressiste», è stato collegare la critica dello sviluppo economico, del progresso scientifico e dell'industrializzazione alla lotta contro l'imperialismo, il consumismo e la cultura di massa, un tema di destra a uno «di sinistra». Così il gioco è fatto: parliamo di rivoluzione, e intanto ingrassiamo il sistema!* autore di Contro la decrescita (Longanesi)
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