C'è un rituale, che confessiamo a voi lettori, che ci accompagna durante i nostri reportage. Una fotografia, realizzata con l'autoscatto, che ci ritrae al termine di ogni servizio, in ciascuno di quei Paesi dove da alcuni anni ci rechiamo per raccontare guerre e situazioni di crisi.
È uno scongiuro scaramantico, un rito scanzonato, nato per casualità, ma nel quale si confida per senso del dovere, di inconscia devozione alla superstizione e ontologica predisposizione a cercare in un gesto irriverente un'esorcizzazione della tragedia, un'ode a chi nell'orrore non cede alla caducità delle speranze e, allo stesso tempo, anche uno sberleffo, fatto con un sorriso, a chi invece fa di terrore e conflitti un baluardo e una prerogativa dell'essere.
Il nostro lavoro giornalistico in Africa ha avuto inizio a Mogadiscio, nella capitale della Somalia, dove ci siamo recati per descrivere la guerra del terrore condotta dal gruppo jihadista Al Shabab, (GUARDA IL REPORTAGE) poi, nella Repubblica democratica del Congo, nei giorni della ribellione degli M23 e dell'odio etnico tra hutu e tutsi (GUARDA IL REPORTAGE).
Ma la condanna a cui sembra essere maledetta l'Africa ci ha portati anche in Nigeria del Nord (GUARDA IL REPORTAGE) per conoscere la guerra del terrore di Boko Haram e il conflitto tra cristiani e musulmani.
Ci siamo nascosti nelle trincee disseminate sui Monti Nuba, in Sudan, durante i bombardamenti dell'aviazione di Omar al Bashir, e abbiamo convissuto con i guerriglieri dell'Spla-N, apprendendo così il lirismo della fierezza e dell'orgoglio di un popolo che continua a lottare per la sua terra e per un futuro di pace. (GUARDA IL REPORTAGE)
Oggi, cari lettori e sostenitori degli “Occhi della Guerra”, siamo in partenza per la Repubblica Centrafricana, per raccontare un Paese che è stato travolto da una guerra civile che, epigona dei conflitti d'Africa, ha visto maturare in se stessa gli elementi più brutali della tragedia bellica.
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