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I creditori americani chiedono che la Cina saldi i debiti di cento anni fa

Un'associazione di risparmiatori americani ha ufficialmente chiesto che il governo cinese restituisca i soldi ottenuti dalla vendita dei propri titoli di stato agli inizi del novecento. L'ente statale che emise le obbligazioni era però la Repubblica di Cina, un'autorità differente dall'attuale Repubblica Popolare Cinese

I creditori americani chiedono che la Cina saldi i debiti di cento anni fa

La Cina dovrebbe saldare i debiti contratti con i risparmiatori statunitensi più di cento anni fa. È quello che chiede a gran voce la signora Jonna Bianco, presidentessa dell'American Bondholders Foundation, un'organizzazione che rappresenta più di ventimila cittadini americani possessori di obbligazioni emesse dallo stato cinese prima della rivoluzione comunista del 1949 e mai rimborsate. Come riportato dal settimanale The Economist, la somma di denaro che Pechino ha ottenuto dalla vendita dei propri titoli di stato ammonterebbe - aggiornata all'inflazione odierna - a più di 750 miliardi di dollari, una cifra che secondo la signora Bianco dovrebbe essere saldata dalla Repubblica Popolare Cinese nonostante quest'ultima non sia tecnicamente la reale artefice del debito. La richiesta dell'American Bondholders Foundation si basa infatti su una prassi consolidata nell'ambito del diritto economico, secondo cui i governi nazionali ereditano il sistema economico (con annessi debiti e crediti) delle entità statali che li hanno preceduti.

In questo caso, ad essere colpevole dell'indebitamento è la cosiddetta Repubblica di Cina, l'ente statale che nel 1912 subentrò al governo del paese asiatico dopo la caduta della Dinastia Qing e la conseguente fine del millenario Impero cinese. Già dal 1913, in continuazione peraltro con le precedenti politiche economiche imperiali, la repubblica inondò i mercati internazionali con le proprie obbligazioni, allo scopo di finanziare lo sviluppo economico del paese e soprattutto di rimborsare precedenti prestiti ottenuti dall'impero. Tra questi l'operazione più celebre fu quella del Reorganization Loan, un finanziamento di 60 milioni di dollari americani in oro - equivalenti a più di un trilione e mezzo di dollari americani odierni - concesso da un consorzio bancario del quale facevano parte Gran Bretagna, Francia, Germania e Stati Uniti e che consentì al paese di evitare il default economico. Come però fa notare il professor Mitu Gulati della Duke University: "A livello legale questi debiti esisterebbero ancora, ma in pratica sono ormai caduti in prescrizione".

Alcune volte capita infatti che i governi nazionali, invece di riconoscere e rifinanziare il debito, lo rifiutino appellandosi alla presunta differenza ideologica e simbolica con i loro predecessori dai quali vogliono prendere il più possibile le distanze. Fu il caso ad esempio dell'allora Unione Sovietica, che nel 1918 rifiutò di riconoscere i debiti zaristi che il defunto Impero russo fece ai danni della Francia, i quali vennero finalmente ripagati solo nel 1996. Un'altra argomentazione spesso addotta dagli stati per evitare di restituire prestiti ottenuti in precedenza è quella del cosiddetto "debito odioso", cioè quel tipo di debito - il più delle volte contratto da regimi dittatoriali - utilizzato per scopi diversi da quelli di interesse nazionale, informando i creditori di come venivano spesi i soldi ma allo stesso tempo tenendo all'oscuro la popolazione. Un recente caso di debito odioso avvenne quando nel 2003 il Congresso degli Stati Uniti approvò un disegno di legge per cancellare i 125 miliardi di dollari di passivo accumulati da Saddam Hussein durante la presidenza dell'Iraq.

Tuttavia, sono numerosi anche i precedenti di debiti ripianati. L'anno scorso la Russia ha infatti saldato l'ultima tranche di pagamenti per estinguere il debito di 70 miliardi di dollari ereditato dall'ex Unione Sovietica; mentre è del 2010 il caso della Corea del Nord, che cercò di pagare i propri debiti con la Repubblica Ceca offrendo in cambio una radice di ginseng dal valore di 500.000 dollari.

È in situazioni come queste che la diplomazia si dimostra sempre la strada migliore da percorrere, come quando nel 1987 Regno Unito e Cina strinsero un accordo proprio per il pagamento delle obbligazioni imperiali ancora detenute dai risparmiatori britannici. Un esempio che aiuta a comprendere anche il motivo per cui l'American Bondholders Foundation non abbia attaccato con lo stesso vigore quello che teoricamente è il vero successore diretto della Repubblica di Cina, cioè Taiwan. Lo stato insulare - sul quale nel 1949 si rifugiarono i nazionalisti di Chiang Kai-Shek dopo la sconfitta contro i comunisti di Mao Tse-Tung e che rivendica ancora oggi il controllo dell'intero territorio cinese - non è infatti ufficialmente riconosciuto dal governo degli Stati Uniti, che interruppe le relazioni diplomatiche nel 1979 preferendogli ad esso la Repubblica Popolare Cinese. A riprova di ciò basti pensare che nel 1990 il ministero delle finanze di Taiwan dichiarò che l'eventuale rimborso sarebbe stato trattenuto in attesa della riconquista della Cina continentale.

Una soluzione diplomatica tra Cina ed Usa sarebbe peraltro molto ardua considerando l'attuale momento geopolitico e la personale guerra economica che Donald Trump ha dichiarato contro il colosso asiatico. Nella migliore delle ipotesi infatti, l'American Bondholders Foundation dovrebbe accettare un forte patteggiamento - o comunque una buonuscita simbolica - rispetto all'iniziale stima di rimborso fatta, basata su decenni di interessi non pagati. Questo nonostante la stessa Jonna Bianco abbia recentemente avuto un incontro personale proprio con il presidente Trump nel suo campo da golf in New Jersey, allo scopo di convincerlo a fare pressione sul caso.

Ad oggi pertanto, l'unico luogo in cui poter ricavare qualcosa da quelle obbligazioni ultracentenarie è - ironicamente - sul mercato dell'antiquariato, dove vengono quotate in media a circa 250 dollari l'una, cioè più del doppio del loro valore nominale originario di 100 dollari.

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