Iran, impiccata Reyhaneh Uccise il suo stupratore

Nonostante le proteste, la ragazza di 26 anni è finita sul patibolo La madre ha lottato invano fino alla fine per salvarle la vita

L'Iran khomeinista, torvo e vendicativo come lo sguardo del suo fondatore suggeriva, con quelle sopracciglia da Barbablù che sembravano fabbricate in un laboratorio teatrale, ci ha abituati a una giustizia in cui il principio dell'occhio per occhio viene praticato in modo implacabile, tassativo. Nessuna pietà, nessuna misericordia in un Paese in cui la pena di morte va ancora per la maggiore. Adultere lapidate, ladri amputati, spacciatori spediti nel mondo dei più (quelli non funzionali al sistema, alle strategie di potere e alle casse del regime, naturalmente): questo era l'Iran degli inturbantati, scrivevamo nell'aprile scorso, commentando la storia bella e commovente di una madre che aveva perdonato l'assassino del figlio, salvandolo dalla forca un istante prima dell'esecuzione. Sembrava che quella vicenda potesse segnare una svolta nel modo di sentire di un popolo, nella cultura anche giuridica di un Paese ferrignamente ancorato alla tradizione. Ora sappiamo che la storia di quella madre rappresenta un'eccezione; e che all'ombra proiettata dal mantello del Profeta sul Paese degli ayatollah, parole come perdono, clemenza, non hanno diritto di cittadinanza.

A lungo serberemo il ricordo dello sguardo malinconico di Reyaneh Jabbari, la giovane impiccata a mezzanotte di venerdì, giorno di preghiera, nel carcere di Teheran, dove era rinchiusa da sette anni. Condannata a morte nel 2009 per aver pugnalato a morte un uomo che voleva stuprarla, Reyaneh forse non si è mai fatta illusioni sul suo destino. In un Paese in cui le donne subiscono e tacciono, la sua violenta ribellione doveva essere punita in modo esemplare. Reyaneh lo sapeva, anche se la mobilitazione del mondo e gli appelli per fermare la mano del boia devono avere fatto sperare a lei e alla sua famiglia che un destino già scritto potesse in qualche modo essere modificato.

Prescrive la Qisas, la legge della sharia della retribuzione, che siano i familiari della vittima a spingere la sedia che determinerà la caduta nel vuoto del condannato. Nel caso di Reyaneh, a vestire i panni del boia in un venerdì in cui il Medioevo è tornato a trionfare è stato il figlio della vittima, che ha sferrato un calcio allo sgabello su cui, la corda al collo, Reyaneh era stata fatta salire. La notizia della sua morte, ha raccontato al mondo la BBC, è stata confermata dalla madre della ragazza. Madre e figlia hanno potuto stare insieme per un'ora, e i baci, gli abbracci, le lacrime, le mani che cercavano i volti della figlia, della madre amata, devono essere stati uno strazio, uno spettacolo indicibilmente crudele anche per i secondini che hanno assistito alla scena. Sholeh Pakravan, la mamma, aveva rivolto un ultimo disperatissimo appello al mondo. Ma lei stessa non credeva più al miracolo. «Credo che questa sia proprio l'ultima volta che l'ho vista e abbracciata», aveva detto uscendo dal carcere. Reyhaneh era stata arrestata nel 2007, quando aveva solo 19 anni, per l'omicidio di Morteza Abdolali Sarbandi, ex dipendente del ministero dell'Intelligence di Teheran. Un capataz, un uomo d'ordine, di quelli abituati a farsi obbedire. La ragazza ammise di aver accoltellato l'uomo, ma per difendersi da un'aggressione sessuale. Ma a Teheran questa non è considerata neppure un'attenuante.

Solo il perdono della famiglia della vittima avrebbe potuto salvarla. Ma per «graziarla» il figlio dell'uomo ucciso aveva chiesto che Reyhaneh negasse di aver subito un tentativo di stupro. Cosa che lei si è sempre rifiutata di fare.

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