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Israele, la "serra" dei terroristi suicidi che l'Occidente non ha voluto vedere

Israele, la "serra" dei terroristi suicidi che l'Occidente non ha voluto vedere

Mentre gli jihadisti di al Qaeda sequestravano gli aerei che alle 7,59 dell'11 settembre 2001 avrebbero dato fuoco al mondo, Israele era già in un bagno di sangue terrorista che l'Occidente riduceva a mere questioni territoriali. A Gilo le giornate erano ritmate dagli scoppi dei missili che l'Intifada sparava da Betlemme su Gerusalemme. Nei due giorni precedenti, due poliziotti e una decina di civili si erano uniti alle circa 1500 vittime: più o meno la metà di quelle delle Twin Towers. Israele fu una sorta di serra sperimentale del terrorismo suicida, ma il fenomeno rimase incompreso. Oggi, dopo il penoso ritiro americano dall'Afghanistan, è evidente che questo rifiuto occidentale a capire sopravvive come un pericoloso fantasma, che potrebbe risultare mortale per il mondo intero.

Tanti furono gli episodi ignorati in Medio Oriente, Europa e Usa che avevano segnalato la preparazione di un attentato storico; altrettanto, seguitano ad essere equivocate anche le conseguenze dell'attacco alle Torri, come la presa del potere dei Talebani. Si disse anche che era colpa degli americani; che era possibile parlare coi terroristi; che le loro aspirazioni religiose e sociali erano parte di una cultura diversa ma legittima. Lo si ripete oggi, come lo si è detto di Hamas. Israele aveva subito attentati a migliaia ed era già da tempo una lampada accesa sulla necessità di capire, studiare per combattere il terrorismo, pena la sicurezza del mondo intero. Nel '95 Bibi Netanyahu in un libro metteva in guardia gli Usa: se non vi accorgete di quello che sta accadendo, presto vi ritroverete il World Trade Center spianato. Una profezia? No, solo una visione chiara della natura ideologica, e non territoriale o sociale, del terrore.

La storia di Israele fa piazza pulita dell'idea che si possa placare l'appettito della jihad proponendo scambi territoriali e miglioramenti sociali e che la democrazia, la libertà, siano l'obiettivo di ogni uomo. Al contrario, le culture fondamentaliste islamiche disprezzano ogni libertà. Esiste un bene superiore che viene realizzato tramite la sharia, e le leadership hanno il compito supremo di farla osservare. Il costante ritorno all'Intifada, al terrorismo capillare, al rifiuto di riconoscere Israele o di rispondere alle profferte di pace è una risposta ideologico-religiosa all'imperativo di cacciare gli infedeli da terre islamiche. La sharia, per affermarsi, ha necessità di combattere il nemico: l'Occidente delle Torri, Israle che occupa la Ummah, la comunità islamica. Non c'è trattativa che tenga. L'assassinio di Anwar Sadat, che aveva osato accettare Israele e stringerci una pace, fa parte di quella dinamica. Abdel Rahman, compagno di Ayman al Zawahiri, dal carcere stilò la fatwa di assassinio e vent' anni più tardi la stilò per l'attacco delle Twin Towers. Per questo Bin Laden, succedendogli, accumula su di sé la rabbia dei palestinesi anti-accordo di pace e quella degli afghani invasi dai sovietici. È la jihad «contro i sionisti e i crociati», l'attacco per riprendersi territori o per allargare la forza della sharia.

Dopo quell'attacco, i palestinesi festeggiarono con mortaretti e dolci. Yasser Arafat, per salvaguardare i rapporti con gli Stati Uniti, in piena Intifada condannò disinvoltamente il terrorismo, continuando però a sostenerlo. Oggi Hamas è stata la prima a congratularsi con i Talebani per il riconquistato potere in Afghanistan, e i palestinesi, hanno festeggiato «il nuovo standard per la resistenza contro Israele». La loro guerra non ha niente a che fare con circostanze politiche, ma è figlia di un'aspirazione ideologica fondamentale e irrinunciabile. I palestinesi hanno potuto contare sul senso di colpa che ha impedito all'Europa e anche agli USA di identificare la componente jihadista nel conflitto israelo-palestinese, di vedere che Hamas e l'Autonomia Palestinese fanno parte dell'esercito jihadista. Per il quale solo la mukawama, o resistenza, può smantellare l'alleanza occidentale che domina il mondo e occupa le terre islamiche: «I Talebani - ha detto Musa Abu Marzuk della direzione di Hamas - hanno rifiutato le mezze soluzioni proposte dall'America. È una lezione per tutti i popoli oppressi» che va «assorbita» da Israele: «L'occupazione di terra palestinese non durerà e finirà».

Quando Netanayhu descriveva come letale la spirale terroristica, aveva presente la carta geografica del Medio Oriente e del terrorismo che scaturiva sia dall'Iran sciita con gli hezbollah sia da vari gruppi sunniti. La scia di sangue è lunga, dagli attacchi suicidi in Libano alle baracche dei soldati americani (241 morti) a quello ai soldati francesi, 58 morti. Era il 23 ottobre dell'83. La scelta strategica era quella che proibisce all'infedele le terre islamiche. Prima e dopo, fino agli attacchi di Gerusalemme, di Londra, di Parigi, fino alle stragi antisemite in Francia e in America, gli attentati sono tutti illuminati dal lampo gelido dell'11 settembre. Il mondo cambiò, la «lunga guerra» al terrore formò una coalizione, i Talebani vennero cacciati, al Qaeda fu semidistrutta, e Bin Laden fu ucciso, Obama dichiarò vittoria. Ma l'Isis, gli attentati nel mondo, i Talebani, l'odio per l'Occidente e Israele non si sono modificati.

La trama jihadista è paziente. Per smontarla va decrittata: un progetto ideologico-religioso mondiale. Israele combatte la sua battaglia, e cerca la sua via di pace con gli accordi di Abramo: un riconoscimento rispettoso delle altrui culture, sostenuto da prospettive vantaggiose. La via d'uscita è, almeno in parte, qui.

Per il resto, la jihad iraniana sciita e quella sunnita lavorano sott' acqua e non impallidisce il loro sogno.

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