Macron e i rebus governo: "Ipotesi di unità nazionale"

Respinte le dimissione della premier Borne. C'è il no dei gollisti. Le consultazioni e le manovre dell'Eliseo

Macron e i rebus governo: "Ipotesi di unità nazionale"

Grande è la confusione (e l'imbarazzo) sotto il tetto dell'Eliseo. I risultati elettorali faticano a essere digeriti dallo frastornato staff di Emmanuel Macron. L'appello presidenziale per una maggioranza «chiara e solida» è stato bruscamente rottamato dagli elettori (o almeno da quel risicato 46,23% che è andato alle urne) e la coalizione macroniana La République en marche (LRM), i MoDem e Horizon si è dovuta accontentare di solo 246 seggi, numeri ben lontani dallo scintillante risultato (330 seggi) di cinque anni fa e soprattutto dalla maggioranza assoluta (289 seggi) indispensabile per governare il glorioso Palais Bourbon.

Perso il controllo sull'Assemblea nazionale, Macron deve confrontarsi con un paesaggio politico inedito e frammentato che riporta gli orologi al 1958, l'ultima fase della tormentata Quarta Repubblica. A sinistra vi è ora, con 142 seggi, una rissosa e già dilaniata galassia massimalista, a destra c'è il sorprendente Rassemblement National di Marine Le Pen con 89 deputati (i veri vincitori di queste elezioni) e poi i 64 sopravvissuti post-gollisti Républicains più qualche frattaglia ininfluente.
A oggi una situazione ingestibile. L'inquilino dell'Eliseo è in minoranza è rischia la paralisi istituzionale. Dove troverà i voti per far approvare le sue contestate riforme o le nomine istituzionali? L'unica opzione al momento è prendere tempo. Ieri Macron ha respinto le dimissioni della prima ministra Elisabeth Borne e a convocato l'intero governo a Matignon. Un passaggio necessario poiché tre ministre Amélie de Montchalin (Transizione ecologica), Brigitte Bourugnon (Salute) e Justine Bénin (Mare) sono state impallinate dagli elettori e devono dimettersi. L'annunciato rimpasto, ovviamente, può essere l'occasione per imbarcare in una nuova maggioranza altre componenti o almeno dei singoli il pensiero va ai moderati di destra e sinistra desiderosi di una sistemazione e non a caso Olivia Gregoire, capofila macronista, già annuncia che «bisogna superare i vecchi schemi e lavorare con tutti coloro che vogliono far avanzare il Paese. La mano è tesa». Sulle stesse frequenze anche la signora Borne che «constatato che non vi sono alternative», d'ora in poi lavorerà «per costruire una maggioranza d'azione, capace di continuare sulla strada delle riforme necessarie».

Aperture che non sembrano però convincere nessuno. Nel suo incontro di ieri con Christian Jacob, presidente dei Républicains, Macron ha registrato un garbato ma fermo no a ogni ipotesi di coalizione o di alleanza. «Non tradiremo i nostri elettori», ha affermato Jacob smentendo così alcune voci interne al suo partito - tra tutte quelle di Christelle Morançais, presidente regionale della Loira - favorevoli a «un patto di governo da costruire dalla A alla Z, poiché questo è il tempo del coraggio e della responsabilità».

Al netto della retorica e delle piroette propagandistiche, in molti si chiedono quanto i postgollisti molto indeboliti dopo il fallimento alle presidenziali della loro Valérie Pécresse ma strutturalmente governisti riusciranno a resistere alle sirene macroniane. Di certo un loro appoggio ad un nuovo governo non potrà essere gratuito né indolore. Macron potrebbe considerare la creazione di un «governo di unità nazionale» per trovare «vie per uscire dalla situazione politica» all'Assemblea nazionale, dove non è riuscito a ottenere la maggioranza assoluta, ha affermato il segretario nazionale del Partito Comunista Fabien Roussel.

Sullo sfondo rimane l'ipotesi estrema. Lo scioglimento delle camere previsto dall'articolo 12 della Costituzione francese. Una prerogativa del presidente.

Rimane aperta la cruciale questione dei tempi. È possibile tornare alle urne tra qualche mese, oppure bisogna attendere un anno? I costituzionalisti già litigano e si dividono, ma la Francia può bloccarsi sino alla primavera del 2023?

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