Lo sguardo malato dell’Occidente

Fresco di stampa “Russofobia”, un volume che fa il punto su mille anni di diffidenza

Lo sguardo malato dell’Occidente

Da anni Sandro Teti dedica attenzione al mondo russo e postsovietico. È sua l’unica pubblicazione seria su Julija Timošenko (2013), la “principessa del gas” ucraina, figura elevata al rango di martire in Occidente, celebre invece in patria per la lunga infilata di processi che ha caratterizzato la sua ventennale carriera politica. Sempre di Teti è l’unico libro che chiama in causa giornalisti e intellettuali di diverso orientamento – tra gli altri, Caracciolo, Freccero, Biloslavo, Chiesa, Cardini, Lilin e Calzini - per fare il punto sulla guerra civile in Ucraina (“Attacco all’Ucraina”, 2015).

Da questo punto di vista, “Russofobia”, ponderoso volume dello storico e giornalista svizzero Guy Mettan, è forse il tentativo di chiudere il cerchio. La domanda che anima il testo è semplice: da dove nasce il cosiddetto “doppio standard”? Da dove nasce la tendenza occidentale a giudicare la Russia in maniera asimmetrica, parziale, faziosa?

Così, a partire da eventi recenti e andando a passo di gambero verso i secoli più lontani, Mettan mette in fila una serie fatti che rivelano l’origine e le manifestazioni di un pregiudizio simile all’antisemitismo (“Non un fenomeno transitorio legato a eventi storici determinati, ma qualcosa che ha la sua prima ragion d’essere nella mente di chi osserva”). In questo lo storico svizzero sembra aver appreso la lezione del grande Marc Bloch, quando spiegava che la storia non è cronologia e che alcune volte può svelare meglio il suo senso anche essendo riavvolta all’indietro (“Apologia della storia”). Partendo dunque dall’ultimo quindicennio, Mettan si chiede come sia possibile accollare i 71 morti della collisione aerea di Überlingen (2002) al presunto alcolismo o alla mancanza di comprensione dell’inglese dei piloti russi (si dimostrerà che l’aereo della Bashkirian Airlines era in perfette condizioni, che il pilota era addestrato e di lunga esperienza e che l’errore fu della torre di controllo svizzera), come sia possibile puntare il dito sul governo russo per la straziante strage dei 331 bambini di Beslan (rivendicata da Šamil Basaev, islamista, capo dei separatisti ceceni, non di rado dipinto in occidente come un patriota ottocentesco), come sia possibile imputare alla Russia la guerra contro la Georgia del 2008 (Mettan rileva che il rapporto della missione di inchiesta internazionale indipendente dell’Unione Europea ha ufficialmente stabilito è stata la Georgia a scatenare il conflitto per impadronirsi dell’Ossezia del sud), come sia possibile che gran parte della stampa europea abbia taciuto il ruolo degli Stati Uniti nella recente crisi ucraina (1 milione di profughi e 10.000 morti ad oggi).

È forse plausibile che la signora Nuland, sottosegretario americano per le Politiche europee e dell’Eurasia, disponga delle cariche di governo a Kiev poco prima della strage di piazza Maidan del febbraio 2014? È ammissibile che ciò che è valso per il Kosovo – il referendum per l’indipendenza – non sia valido per la Crimea (che peraltro ha già tenuto un legittimo referendum di secessione nel 1991)? È accettabile che il sottosegretario Kerry, durante la fase degli scontri di piazza, incontri i leader dell’opposizione ucraina? Come l’avrebbe presa l’Occidente se Putin avesse incontrato i rappresentanti di Occupy Wall Street?

Questo e molto altro si chiede Mettan, avvertendo, al contempo, che sono domande dalle risposte non semplici. Perché per circa settant’anni la russofobia è stata sepolta dalla coltre ideologica della guerra al comunismo. Perché complice della russofobia è anche una secolare difficoltà dei russi a definire se stessi. Perché, come spiega nella bella introduzione il professor Cardini, “Il percorso storico della russofobia occidentale è quello di un sentimento che nacque dalla diffidenza verso Bisanzio”. Eppure, che questa patologia del pensiero occidentale esista è un dato di fatto. Lo spiega perfettamente anche la sua caratterizzazione geopolitica. Scrive l’autore: “Gli asiatici, gli africani, gli arabi, i sudamericani non sono mai stai russofobi. Cinesi e giapponesi hanno dei problemi di vicinato con la Russia contro la quale si sono a volte trovati in guerra; ma non sono russofobi. Invece gli Stati Uniti, che dondividono una frontiera con la Russia, pur senza esservi entrati in guerra – e anzi essendo stati suoi alleati per due guerre mondiali – hanno sviluppato una russofobia di stato senza paragoni nella storia moderna”.

Infine un appunto. Se c’è una cosa che manca al volume di Mettan è l’implicito portato comico della russofobia. Chi legge anche le fonti russe spesso non può fare a meno di coglierlo. È il caso, ad esempio, di un recente scambio di battute tra un giornalista e Lavrov, ministro degli Esteri russo. A proposito di Brexit, il cronista chiede: “Come commenta i risultati del referendum?” Risponde Lavrov: “Si tratta di una questione interna al popolo inglese”.

Incalza il giornalista: “Il ministro degli Esteri britannico ha detto che questa è una vittoria del presidente russo Vladimir Putin”. E Lavrov: “Non ho studiato medicina, dunque non posso commentare i casi clinici”. Russofobia, appunto.

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