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Siria, nei luoghi della sofferenza e dell’orgoglio

Nonostante la militarizzazione della capitale siriana, i damasceni provano a vivere una vita degna e normale

Siria, nei luoghi della sofferenza e dell’orgoglio

Da Damasco – Il filo spianto, i carri armati e i soldati schierati nelle strade fanno da cornice ad una città che non ha perso la speranza. Perché nonostante la militarizzazione della capitale siriana, i damasceni provano a vivere una vita degna e normale. I giovani vanno a scuola, gli adulti a lavoro, i caffè si riempiono così come le chiese e le moschee. Ma per capire le conseguenze tragiche della guerra bisogna recarsi nei luoghi della sofferenza: negli ospedali civili e di guerra, nelle fondazioni dei martiri, nei campi di rifugiati. Tutte strutture ultra-moderne, interamente gratuite, gestite nel solco del socialismo arabo dal partito Baath che si dislocano in tutte le aeree controllate dal governo legittimo siriano. Dal 2011 queste si sono moltiplicate e accolgono tutti quei cittadini che hanno subito danni fisici e materiali in un conflitto che sta insanguinando il Paese.

Nel centro di Damasco si situa il più grande ospedale civile. Ad accoglierci insieme ai dottori è il direttore, un uomo autorevole sulla sessantina. “Qui tutti sono i benvenuti e, delle spese dei pazienti ce ne occupiamo noi”, ci dicono prima di entrare nell’edificio. La struttura è gigantesca, i corridoi sono colmi di familiari dei mutilati, alcuni gridano per la disperazione, altri pregano. Una donna velata maledice in arabo i terroristi che hanno ferito suo marito. Sui lati le camere dei pazienti si moltiplicano, le ambulanze continuano ad arrivare e a ripartire. I responsabili ci mostrano i casi più significativi. Ashtar è ragazza di 23 anni che si è dovuta laureare all’ospedale dopo che un missile dei miliziani anti-governativi l’ha colpita ad Homs paralizzandole il corpo. Ahmed invece ha 11 anni, ha perso tutte e due le gambe in un esplosione mentre giocava nel parco della città di Kobane. Al suo vicino di stanza, Mohamed, ventiseienne, gli hanno amputato un braccio a causa delle lesioni profonde. Al piano superiore i fratelli Nasser, Brahim e Ahmadi, sono saltati in aria il 9 agosto del 2015 a Raqqa, oggi capitale dello Stato Islamico, rimanendo gravemente feriti. Infine un giovane ragazzo dell’Università di Damasco ci accoglie nella sua stanza in sedia a rotelle, le sue gambe sono paralizzate a causa di un colpo di mortaio scoppiatogli a pochi metri di distanza.

L’assistenza dello Stato passa anche attraversando altre strutture come la “fondazione dei martiri”. Qui sono ricevuti le famiglie, in particolare le madri, che hanno perso i loro figli e il marito in guerra. Viene versato uno stipendio trimestrale e gli alimenti necessari per la sopravvivenza ci spiega una donna che ha perso tre dei suoi sei figli nella guerra di Kabbas, un villaggio non lontano da Damasco. Uno dei sopravvissuti, Hassan, ventitreenne e soldato volontario, le sta accanto e ci racconta la sua guerra contro i miliziani anti-governativi, i suoi faccia a faccia con il nemico e le difficoltà di una guerra che sta entrando nel suo quarto anno. Ogni siriano ha il dovere di combattere se necessario, dice, perché ogni caduto di guerra si avvicina al suo Dio. Dalle sue parole traspare che il martire non è una vittima di guerra ma un uomo che si è sacrificato per la sua Patria e la libertà del suo popolo. Riportando poi le indagini del governo Hassan ci spiega che a Zabadani, Darya e Jobar, quartieri periferici della capitale siriana e occupati dai miliziani di Jabhat Al Nusra, esistono delle vere e proprie città sotterranee dove si possono trovare alimenti, armi, medicinali. Sarebbero state costruite circa dieci anni fa per preparare la conquista dell’area e destabilizzare il Paese, e secondo le stesse fonti governative starebbe a dimostrare l’inautenticità della rivolta iniziata nel 2011 così come la sua pianificazione meticolosa un decennio prima.

Tra le altre strutture vicine alla popolazione non mancano le case famiglia per i rifugiati siriani scappati dalle città occupate. Anche queste interamente finanziate dallo Stato sociale siriano. La nostra visita si svolge ad una ventina di chilometri da Damasco. Ad accoglierci nel cortile che precede l’edificio sono una cinquantina di bambini che corrono da tutte le parti. Qui la sofferenza diventa gioia di vivere ci dice una bambina che ha lasciato il suo villaggio situato nel nord del Paese. Ci prende per mano accompagnandoci nella sua nuova abitazione, un monolocale di trentra metri quadrati. Qui vive con la sorella e i genitori. Accanto alla sua abitazione Abdallah, padre di 4 bambine, ci invita nella sua piccola casa offrendoci da bere. Ha abbandonato quattro anni fa la sua città, Aleppo, ma confessa di sentirsi a casa. “In questi centri di accoglienza c’è posto per tutti, non ho lasciato il Paese come molti miei connazionali perché è nostro dovere rimanere in Siria, un Paese che ci ha dato tutto, dobbiamo unire le forze” ci racconta. Come lui tanti altri padri di famiglia hanno preso questa decisione. “Torneremo a casa nostra” afferma un bambino di 7 anni prima che lasciassimo il posto. Nessun sentimento vittimistico sembra animare tutte queste persone che subiscono le conseguenze della guerra.

Semmai si percepisce dai loro sguardi la ferma volontà di sacrificarsi per l’intera comunità se necessario.

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