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Marisa, uccisa a 22 anni da un bimbo che si voleva suicidare

Usa sotto choc per la storia del bimbo di 12 anni con problemi psichici che ha tentato il suicidio lanciandosi giù da un ponte. Nel farlo è finito addosso a Marisa Harris, morta per le conseguenze dell'impatto. Ora la sua famiglia vuole giustizia

Marisa, uccisa a 22 anni da un bimbo che si voleva suicidare

28 Ottobre 2017. Marisa Harris è una ragazza americana di 22 anni che sta guidando la sua macchina lungo l'autostrada del North Virginia, Stati Uniti. Insieme al suo fidanzato, sta tornando a casa dopo un rilassante giro in bicicletta. Improvvisamente, un peso morto sfonda il tetto della macchina e la prende in pieno, uccidendola sul colpo. È un bambino di 12 anni, che si è lanciato da un ponte per farla finita. Il piccolo, di cui giustamente non è mai stata svelata l'identità, ha gravi problemi psichici. Vuole ammazzarsi. Non ci riesce. Però uccide una ragazza poco più grande di lui. Che, ironia della sorte, studiava per assistere i malati psichiatrici.

È l'incredibile storia - raccontata dal Washington Post - che ha sconvolto l'America. Il piccolo, come detto, è affetto da disturbi mentali. A più di un anno dal tragico incidente, la famiglia della giovane Marisa non è ancora riuscita ad avere una risposta alla sua domanda. "Perché?". Perché l'ha fatto? Perché il cavalcavia dell'autostrada era priva di una barriera che impedisse a un bambino di buttarsi giù? Marisa era una ragazza d'oro, figlia unica di genitori che da quel maledetto giorno vivono rinchiusi nel dolore, affogati nei rimorsi. La ragazza amava i film horror, preparare biscotti e trascorrere il tempo libero come volontaria per i bimbi sfortunati. Come il 12enne che, non volendo, l'ha ammazzata. La famiglia del piccolo vorrebbe, vuole dimenticare. Più volte il Washington Post le ha chiesto di commentare la vicenda. Magari per esprimere cordoglio, vicinanza, affetto al padre e alla madre che sono rimasti orfani. Niente di tutto ciò. Il suv che doveva proteggere Marisa si è come sbriciolato sotto il peso del ragazzino. Parabrezza in frantumi, vetri sparsi ovunque. Perry, il fidanzato della vittima, subito dopo l'incidente ha provato a salvarla. Ha preso il volante, guidando come un pazzo verso l'ospedale. Ma il responso dei medici è stato breve, spietato: "Ci dispiace. Marisa è morta". E con lei - dentro, però - i suoi genitori.

Che vorrebbero giustizia. Pretesa sacrosanta, però... Però l'assassino, se così lo si può chiamare, è un bambino di 12 anni. Un minorenne che in quanto tale, per la legge, non è ritenuto pienamente capace di intendere e di volere. Figuriamoci un piccolo con gravi problemi psichici, forse mai resosi conto di quanto successo. Di chi è la colpa dunque? Della "legge di gravità", come dice la madre di Marisa in un momento di lucida e difficile ironia. O del bimbo? "Lo stanno curando? O è tornato a scuola come nulla fosse?". Queste le domande che si fanno i genitori della ragazza. Domande inevase, ancora senza risposta. Mentre i parenti dell'aspirante suicida, privatamente, minimizzano l'accaduto. "Ma quale suicidio, è stato un incidente". Forse per dimenticare. Cosa che i genitori di Marisa non intendono fare. Il 28 ottobre di quest'anno, a 365 giorni esatti dalla disgrazia, hanno fatto una gita al lago Burke, dove la ragazza aveva trascorso le sue ultime ore di vita insieme al fidanzato. Ridendo, scherzando, pedalando. La loro battaglia continua. Contro l'omertà della famiglia del bimbo, la polizia, la magistratura.

Per avere, una volta per tutte, una risposta.

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