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La strana storia dello "champagne sovietico"

Nella lotta all'ultimo sangue tra vini spumanti francesi e italiani, un residuato alcolico dei tempi della Guerra Fredda la vince

La strana storia dello "champagne sovietico"

Capita a volte di ritrovarsi tra vecchi amici a fare quella che in gergo chiamano “verticale” di vini. Capita dunque di ritrovarsi a casa di qualcuno dopo aver acquistato formaggi francesi o locali, paté di fegati e varie, e scegliere al principio quale bottiglia suggellerà la serata: cosa si berrà alla fine. È così che a frugare in cantina salta fuori una bottiglia di champagne impolverata come poche, ma tra le poche l’unica che possa vantare una peculiarità sostanziale: un’etichetta dove sono impressi vistosi caratteri cirillici. “Cosa diamine è?”, ci domandiamo. “È Champagne sovietico”, risponde l’ospite, che scostando a mano piatta il velo di polvere e umidità che avvolge la bottiglia, si prefigge di servirlo come aperitivo. Ma facciamo un passo indietro e badiamo alla sua storia.

Nella guerra all’ultimo sangue di denominazione combattuta a colpi di diritto internazionale tra vini spumanti ottenuti con metodo classico o metodo Martinotti o Charmat, tra Franciacorta nostrani e classici champagne francesi brut, come è possibile che esista uno champagne sovietico? Ebbene esiste, o meglio, esisteva, e secondo quanto riportato dal sito Atlas Obscura, quel vino spumante sovietico deriverebbe dal desiderio del compagno segretario Iosif Stalin, che nel 1936 ordinò all'apparato sovietico di produrre in quantità industriale una serie di beni di lusso capaci di mostrare al mondo come lo stile di vita che si manteneva nel nuovo mondo comunista non avesse proprio nulla da invidiare a quello che potevano permettersi i “padroni” del vecchio e vituperato sistema capitalista. Per questo la gloriosa Unione Sovietica non poteva certo privarsi del suo “champagne”.

Radici antiche per mondo nuovo

La vecchia Russia aveva avuto una breve esperienza con il vino assemblato da nobili uvaggi fermentati secondo il metodo classico, scoperto per caso dall’abate benedettino Dom Pierre Pérignon, e seguito con devozione dalla vedova Clicquot o da Madame Pommery. Ma tali fasti risalivano all’epoca degli Zar: quando il principe Lev Golitcyn, decise di imbarcarsi nell’esperimento di vinificazione e rifermentazione delle uve coltivate nella penisola della Crimea con zucchero, al fine di ottenere indispensabile anidride carbonica nella bottiglia. Era la fine del diciannovesimo secolo, e il risultato stappato in occasione dell’incoronazione della Zar Nicola II nel 1896, e presentato all’Esposizione universale di Parigi nel 1900, fu tanto apprezzato da guadagnarsi le Gran Prix de Champagne. Avendo superato, in ottemperanza del metodo classico, i migliori champagne francesi. Il nome scelto dal principe per le sue celebri bottiglie era Novyj Svet, che significava appunto Nuovo mondo. Un mondo che non sarebbe sopravvissuto alla rivoluzione bolscevica del 1917, come il suo fondatore e molti dei suoi nobili eredi della sua antica casata. Gli altri furono costretti all’esilio.

Un "simbolo" di benessere a buon mercato

Come spiega nel suo libro Caviar with Champagne, Jukka Gronow, l’idea di Stalin era quella di “rendere cose come champagne, cioccolata e caviale disponibili a prezzi più bassi, per poter dire che il lavoratore sovietico viveva come gli aristocratici del vecchio mondo”. Per questo motivo la produzione dello “champagne del Popolo” - sviluppato secondo un metodo nuovo - doveva essere massificata al punto che ogni soldato dell’Armata Rossa e ogni operaio delle fabbriche dell’apparato industriale sovietico potesse stappare una bottiglia di champagne che, in vero, ben poco aveva a che fare con il ricercato e raffinato nettare con il quale si era dovuto consolare Napoleone al termine della disfatta in Russia. “Champagne? Nella vittoria perché lo meritiamo e nella sconfitta perché ne abbiamo bisogno”, era solito dire il caporale d’Ajaccio.

L’unico spumante prodotto e commercializzato nell’URSS prese dunque il nome di Sovetskoye Shampanskoye: “Un vino frizzante, sciropposo e a buon mercato”, concludono lapidari gli esperti. Sigillato nelle sue atmosfere da un dozzinale tappo in plastica da damigiana avvolto nella consueta gabbietta, possiamo aggiungere noi che lo abbiamo maneggiato.

Il metodo per produrre velocemente e in grandi quantità lo champagne del popolo, che prevedeva l’assemblaggio di uve Aligoté e Chardonnay, venne messo a punto dall’enologo Anton Frolov-Bagreyev abbandonando il tradizionale metodo Champenoise - che richiedeva tre anni di rifermentazione in bottiglia - a vantaggio una rapida fermentazione di un mese in grossi serbatoi che potevano garantire la produzione di produrre tra le cinque e le diecimila bottiglie. Dal 1936 in poi lo champagne del popolo venne messo in produzione, ma come spesso accadde per l’utopia sovietica, il risultato non fu quello sperato, né sul piano della qualità, né sul piano della quantità.

Lo Sovetskoye Shampanskoye si diffuse rapidamente in tutta l’Unione Sovietica ma non era propriamente un vino per il popolo che poteva essere consumato ogni giorno dal popolo. Era più una divertente arma di propaganda. Il “simbolo del benessere sovietico” destinato ad accompagnare per assenza d’altro ognuna delle grandi occasioni: proprio come il nostro caro e vecchio champagne. La scrittrice gastronomica Anya von Brezmen lo descrisse come “una bevanda frizzante con l’alcol. Aveva una certa dolcezza, un gusto kitsch e divertente”. Ed è senz’altro divertente tenere in mano all’inizio di una verticale di vini veri, una bottiglia di champagne finto che risale all'epoca sovietica. Immaginarsi in piena Guerra Fredda, quando bottiglie come quella venivano servite alle cene di gala del Cremlino, ai brindisi tra vertici del Kgb e meritevoli compagni che si erano guadagnati onoreficenze dai nomi altisonanti come l’Ordine di Lenin. O come lo stesso champagne del popolo sia finito con l'innaffiare le prime nottate di festeggiamenti nella Germania Est dopo il crollo del muro di Berlino, o come alcune di quelle stesse bottiglie d’annata abbiano visto saltare il loro tappo negli ultimi definitivi anni della Perestrojka.

Un conflitto ancora acceso

Con la dissoluzione dell’Unione Sovietica i diritti per la produzione dello spumante del popolo vennero venduti ad aziende private russe, bielorusse e ucraine, che continuano a produrre ancora oggi bottiglie più adatte ai vecchi nostalgici del comunismo, che a brindisi per le grandi occasioni. Tuttavia, nel corso della guerra alla denominazione che ha scandito gran parte degli anni ottanta, il diritto dell’Unione Europea che ha sancito come nessuno dei vini spumanti prodotti al di fuori della regione vinicola della Champagne, ivi compresi i vini spumanti francesi prodotti in altre regioni della Francia, potesse usare il termine “champagne”- poiché protetto dal marchio AOC, non ha intimidito per nessun motivo i russi. E mentre noi italiani abbiamo trovato sotto altri nomi la nostra eccellenza. Solo questo residuo alcolico della Guerra Fredda resiste imperterrito usando l'improprio appellativo di “champagne”. A quanto si dice gli emissari di Parigi e Mosca sarebbero ancora impegnati a

shtml" data-ga4-click-event-target="external" target="_blank" rel="noopener"> negoziare questa annosa diatriba.

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