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“Vi racconto come il regime mi ha incarcerato e torturato. La mia colpa? Essere un giornalista”

Parla Ahmad Jalali Farahani, film maker iraniano che per scampare dalle persecuzioni del suo governo si è rifugiato in Europa. Da dove organizza la ‘resistenza iraniana’, per fare conoscere al mondo cosa succeda nel suo Paese

“Vi racconto come il regime mi ha incarcerato e torturato. La mia colpa? Essere un giornalista”

A guardarlo non sembra provenire dal Medio Oriente. Capelli lunghi e scuri, carnagione chiara, sguardo sfuggente, potrebbe benissimo essere scambiato per italiano e non per persiano qual è. Eppure è nato e cresciuto in Iran, da dove è fuggito per scampare alle persecuzioni del governo, che in tutti i modi ha cercato di compromettere il suo lavoro di giornalista e regista. Mentre racconta la sua storia ha sempre una sigaretta accesa tra le labbra perché, spiega, fumare per lui è una forma di ricordo e resistenza. “Lo devo a un mio amico ucciso nelle prigioni iraniane. Eravamo nella stessa cella e ci torturavano quotidianamente. Io al tempo non fumavo, lui sì. E quando un giorno le guardie lo vennero a prelevare e capì che quella sarebbe stata l’ultima volta che ci saremmo visti mi guardò e disse: ‘quando sarai libero fumati una sigaretta anche per me’. Da allora ogni volta che penso alla mia storia non posso fare a meno di fumare”.

Ahmad Jalali Farahani è fuggito dall’Iran anni fa. Dopo essere stato incarcerato tre volte e più volte torturato ha deciso di riparare all’estero per continuare a raccontare ciò che ha visto, vissuto e filmato. Residente in Danimarca, dove gli è stato concesso lo status di rifugiato politico, è uno dei più conosciuti membri della così detta “resistenza iraniana”, cioè di quegli iraniani fuggiti all’estero per denunciano e combattere il regime della terra d’origine. La resistenza di Farahani consiste nel raccontare quanto ha vissuto. “Ho girato un documentario intitolato ‘Being a Jouranist in Iran today’

nel quale narro la mia vicenda personale, attraverso la quale descrivo uno spaccato più ampio, in cui si identificano molti colleghi miei connazionali che sono stati torturati e arrestati per il solo motivo di fare bene il proprio lavoro”, spiega. La sua storia di giornalista e regista inizia attraverso la sua volontà di riscoprire chi fosse suo padre, persona da lui mai conosciuta di persona. “Fu ucciso dal regime dello Scià prima che scoppiasse la rivoluzione iraniana che ha portato all’attuale governo. Da giovano filmmaker quale ero decisi di girare il Paese per incontrare e riprendere le persone che lo avevano conosciuto, per ricostruire così la sua e la mia identità. Il mio lavoro venne però intercettato dal governo, che iniziò ad essere sospettoso. Nonostante mio padre non fosse stato attivamente un loro nemico temevano che potessi scoprire più di quanto non dovessi. E infatti venni a conoscenza del fatto che papà era comunista”.

E come si comportarono le autorità in quell’occasione?

“Molto gentilmente in realtà. Mi fecero solo delle domande e mi proposero di collaborare con loro come giornalista, scrivendo bene del loro operato in cambio di soldi e successo. Io rifiutai e loro non opposero resistenza. Questa invadenza, però, mi incuriosì. Iniziai a sentire la voglia di impegnarmi per capire a fondo quanto la libertà di stampa nel Paese fosse effettivamente oppressa e per questo iniziai a girare un documentario a tal proposito. Parlai e filmai persone che erano state imprigionate e torturate per questi motivi, per questo poco tempo dopo le guardie vennero a prendermi per arrestarmi. Mi tennero in cella per una settimana, senza però maltrattarmi. Voleva essere solo un avvertimento. Poi mi liberarono”.

Poi sei stato però arrestato altre due volte.

“Sì, la prima volta quando ero di ritorno da un viaggio a Dubai, dove mi ero recato per un colloquio di lavoro con una radio considerata nemica del regime iraniano. Al mio ritorno venni fermato in aeroporto e portato via con l’accusa di essere membro di una rete di controrivoluzionari e di media sionisti. La seconda volta, invece, quando il regime si rese conto che la mia attività di denuncia non si fermava. Dopo essere stato nuovamente liberato avevo infatti aperto una pagina internet in cui raccoglievo e pubblicavo i video e le foto fatte dagli smartphone dei comuni cittadini iraniani scontenti del regime. Ero diventato un punto di riferimento per chiunque volesse usare il web per pubblicare cose proibite. Ciò non piacque alle autorità. Una notte si presentarono a casa mia, mi picchiarono davanti a mia moglie e mia figlia, mi prelevarono e mi ricondussero in cella. Venni torturato più volte, tanto che quando mi liberarono decisi di smetterla con il giornalismo e iniziai ad avere una vita normale. La mia fama, però, ormai mi precedeva. Fu così che una delegazione del governo mi ricontattò, offrendomi di riscattarmi socialmente: in cambio di un sacco di soldi sarei dovuto andare in televisione a parlar male di loro. Volevano avere qualcuno attraverso il quale mostrare che in Iran esiste un’opposizione e che questa è libera. In cambio dei soldi, però, volevano che facessi sapere loro il nome di chiunque mi contattasse ed esprimesse antipatie per il regime. Io rifiutai, ma capì che loro non l’avevano presa bene. L’atmosfera divenne così pesante che decisi di fuggire in Danimarca, dove oggi vivo”.

Hai ricevuto pressioni anche dall’estero?

“Non io direttamente, ma i miei parenti rimasti in patria sono costantemente sotto il controllo governativo. Fortunatamente dall’Europa posso mandare avanti le mie battaglie di denuncia e organizzare la resistenza. Ho però paura, perché temo che l’avvicinamento politico che sta avvenendo tra il mondo occidentale e l’Iran sia pericoloso. Gli Stati Uniti, per esempio, utilizzano la nostra resistenza come spauracchio da mostrare al governo iraniano per indurlo ad assumere posizioni di compromesso in materia nucleare, non si curano però veramente dell’opprimente situazione che i giornalisti vivono sul territorio. Fino ad oggi gli americani hanno mostrato di interessarsi solo degli affari e non dei diritti umani, tranne nei casi in cui li hanno utilizzati come ricatto durante i negoziati politici ed economici. Ignorando che i giornalisti arrestati ogni giorno in Iran sono numerosi. Solo oggi ne hanno presi cinque, ieri otto, due giorni fa sette. Quello che temo è che l’Occidente riesca, facendo pressioni, a fare instaurare a Theran un regime moderato e loro alleato, senza che però cambi nulla. Per noi sarebbe la più grande sconfitta”.

L’attuale governo iraniano è già considerato essere più moderato rispetto a quello precedente. E per questo l’Occidente ha aperto il dialogo.

“Ogni regime iraniano, anche quello oggi vigente, è stato sempre molto opprimente con i giornalisti. Ciò non toglie, però, che l’Iran sia una democrazia. Spesso dall’Europa si ha una percezione falsata del mio Paese. E’ falso, per esempio, che la gente non possa votare. Prova ne è il fatto che il vecchio presidente Mahmoud Ahmadinejad ha lasciato il potere appena perse le elezioni. Quello che va capito è che l’oppressione ai giornalisti e ai media è trasversale e propria di ogni governo al potere, sia che questo sia amico o nemico dell’Occidente. E infatti ora che al governo ci sono dei ‘moderati’ nulla è cambiato”.

Un’altra questione che l’Occidente rinfaccia al governo iraniano è quella femminile. Com’è oggi la situazione per le donne iraniane?

“Se paragonata a quella dei Paesi europei c’è ancora molto da fare. Ma, anche qui, non va commesso l’errore di pensare che in tutti i Paesi musulmani le donne siano sottomesse allo stesso modo. Certamente anche da noi una donna conta meno dell’uomo sul piano sia giuridico che sociale, ma ha delle libertà che quelle di Arabia Saudita, Bahrein o Quatar si sognano. Da noi le donne ricevono un’istruzione, lavorano in tutti i settori, fanno politica, possono guidare e non sono tenute a coprirsi integralmente. E’ fuorviante ritenere che tutto il mondo musulmano sia uguale, come è pericoloso credere che l’oppressione sulle donne provenga solo da governi nemici dell’Occidente. In realtà i regimi più oppressivi in questo senso sono quelli alleati dell’Occidente, come per esempio l’Arabia Saudita, dove la donna non conta assolutamente nulla. I veri problemi dell’Iran sono altri, in primis l’oppressione alla libera informazione, cosa già abbastanza grave per essere confusa con quelli di altri Paesi”.

Quale pensi possa essere la svolta per giungere al cambiamento che tu auspichi?

“Sempre più iraniani sono stufi. Più guardano i miei documentari e più accedono a internet più hanno voglia di cambiare. In questo contesto più i governo si radicalizza più rischia di aizzare il popolo contro di sé. Il pericolo più grande è che al potere rimanga un regime considerato moderato che non susciti le paure del popolo e dei governi occidentali. In quel caso tutti direbbero che vi sia stato un grosso cambiamento. Senza che in realtà sia cambiato assolutamente nulla.

E i giornalisti continuerebbero a morire”.

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