Montalcini dà il cambio ad Andreotti nel ruolo di "salvagente" dell'Unione

La solita strategia a palazzo Madama per evitare il crollo: dalla fiducia alla Finanziaria, un anno di aiuti dai parlamentari non eletti

Roma - La travagliata XV legislatura ha visto sin dall’inizio protagonisti i senatori a vita. Quello di ieri, con Levi Montalcini, Scalfaro e Colombo che impallinano l’emendamento Manzione, e Andreotti che si astiene dopo aver salvato il governo due giorni prima, è solo l’ultimo episodio contestato tra quelli che li riguardano. Molte le occasioni in cui il loro voto si è rivelato essenziale per le sorti dell’Unione. La storia comincia il 19 maggio 2006. Il governo Prodi, che a Palazzo Madama ha una maggioranza di soli tre voti (158 a 155), peraltro dovuta ai senatori eletti nelle circoscrizioni estere, ottiene la fiducia con 165 sì e 155 no. Tutti e sette i senatori a vita votano a favore ed è subito polemica.

Fischi e insulti piovono dall’opposizone all’indirizzo degli anziani parlamentari. Polemica incentrata sul fatto che un governo dovrebbe avere una maggioranza politica in entrambi i rami del Parlamento, mentre i senatori a vita non sono eletti. Degno di nota il «Vadano a lavorare!» di Roberto Calderoli, che sottolinea comesolo Andreotti e Colombo partecipino assiduamente ai lavori del Senato. Gli altri cinque sono bloccati da comprensibili problemi di salute (a volte diplomatici, nel caso di Pininfarina). Il secondo round è il 4 luglio 2006: il governo incassa la fiducia a Palazzo Madama sul decreto sullo «spacchettamento» dei ministeri. Il risultato: 160 voti a favore. Il quorum richiesto è di 158, votano sì 3 senatori a vita. Il 16 novembre 2006 passa il voto sulle pregiudiziali di costituzionalità del decreto fiscale. Sono 160 i parlamentari che votano sì contro 154. La maggioranza richiesta è 158. I cinque senatori a vita presenti votano con il centrosinistra. Il 15 dicembre 2006 ottiene la fiducia la legge finanziaria. Esprimono il loro sì 162 senatori, i no sono 157. Determinanti i voti di Scalfaro, Ciampi, Cossiga, Levi Montalcini, Colombo.

Colpo di scena a febbraio. Il 21 l’esecutivo va sotto sulla politica estera, evento che lo porterà alle dimissioni (o il Senato mi dà l’ok o tutti a casa, aveva detto il giorno prima D’Alema). E se in quel caso i «cecchini» sono Franco Turigliatto del Prc e Fernando Rossi del Pdci, la vera notizia la danno Pininfarina e Andreotti, astenuti come i due comunisti. Il Divo Giulio rivelerà di aver votato contro in polemica con il ddl sui Dico. Il 28 Prodi, rinviato alle camere da Napolitano, che ha posto come condizione per permettere la rinascita dell’esecutivo la presenza di una maggioranza al Senato senza membri a vita, riottiene la fiducia a Palazzo Madama. Finisce 158 a 156 per il Professore, maanche stavolta sono essenziali Scalfaro, Ciampi, Levi Montalcini e Colombo.

Mercoledì scorso Giulio Andreotti salva in solitario 152 a 151 maggioranza e governo sul primo articolo della riforma giudiziaria. Ed è, per la saga di un governo appeso a un manipolo di vecchietti, l’ultimo atto. Prima del prossimo.

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