Su La Stampa di ieri Giovanni De Luna sè occupato, in un lungo articolo, del revisionismo storico, sostenendo in sostanza che hanno vinto i «revisionisti». I quali non hanno alcun motivo per atteggiarsi a perseguitati, visto che le loro tesi sono ormai straripanti. Ma «già agli esordi, verso la fine degli anni Ottanta, il revisionismo - scrive De Luna - ha come interiorizzato nel suo Dna un vittimismo piagnucoloso e aggressivo». Non minteressa di polemizzare con queste affermazioni, anche se a me, aggressivi e piagnucolosi insieme sembrano a loro volta certi appelli allantifascismo come valore fondante della Repubblica. Diversa è losservazione che mi preme di fare. De Luna cita come testi esemplari del revisionismo imperversante i libri di Giampaolo Pansa e di Bruno Vespa: postisi popolarescamente sulla scia del revisionismo nobile, documentato, professorale che ebbe il suo maggiore interprete in Renzo De Felice.
Nel suo discorso De Luna cita qualche altro testo, ma ne omette uno che non sarebbe dovuto mancare: la montanelliana Storia dItalia. I cui volumi dedicati agli avvenimenti contemporanei, da Mussolini allUlivo, furono da Indro scritti a quattro mani con me. In quelle nostre pagine - alcune migliaia - sono stati affrontati gli snodi più dibattuti e controversi del secolo scorso, il rapporto tra gli italiani e il fascismo, la disfatta, la fuga di Pescara, la guerra civile, la Repubblica, il boom, la caduta del governo Tambroni, e poi via via fino al terrorismo e a Mani pulite. Il tutto in una chiave interpretativa che di sicuro non obbediva agli schemi del politically correct, ma che non pretendeva dessere scorretta per partito preso.
Non voglio togliere nulla allimportanza e al successo di Pansa e di Vespa. Però qualche drappelletto di lettori labbiamo avuto - e labbiamo - anche Montanelli e io. Divulgatori, non storici rigorosi, lo ammetto. Così si spiega che, quando approdò nelle librerie il saggio di Claudio Pavone che riconosceva le caratteristiche di guerra civile a quella che insanguinò lItalia dopo l8 settembre 1943 e fino al 25 aprile 1945 e oltre, si siano levati dal mondo accademico tanti «Oh!» estasiati dammirazione. Che novità! Che coraggio!. Si dà il caso che nel 1983, ossia vari anni prima del lavoro di Pavone, il volume che Indro e io avevano dedicato a quel periodo sintitolasse LItalia della guerra civile.
Mi è concesso, anche in nome di chi non cè più, un moto dorgoglio? Montanelli è stato il primo revisionista dItalia, il suo Qui non riposano fu un pamphlet di sconvolgente e anticipatrice originalità. Il revisionismo montanelliano fu anche il filo conduttore, mai rinnegato, dei nostri tredici libri insieme, i primi dati alle stampe negli anni Settanta e non alla fine degli anni Ottanta. Libri dove la penna di Montanelli mai modificò un mio giudizio o alterò un mio profilo dun personaggio (il che vale, ma era più ovvio, anche per me nei suoi riguardi). Combattemmo insieme, nei libri o sul Giornale, battaglie impopolari, come la difesa non di Erich Priebke ma di principi di giustizia. Ritenevo che quella Storia avesse lasciato qualche traccia di sé anche nellambito degli studiosi che vengono ritenuti o si ritengono seri. Invece nulla, pare che conti soltanto lasse Pansa-Vespa, per Giovanni De Luna paradigma duna tendenza, duna scuola, duna ideologia.
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