Morante: «Che imbarazzo a dire che faccio l’attrice»

Michele Anselmi

da Venezia

In total look Alberta Ferretti per la proiezione di gala, ma a un passo dall'addormentarsi davanti ai cronisti per via dal jet-lag dopo un volo da Chicago (sta girando in Iowa il nuovo film di Pupi Avati), Laura Morante è la francese Nicole in Coeurs. Pronuncia parigina perfetta, un'aria da rompiscatole sotto quella specie di colbacco da zarina, ma dentro un cuore terremotato, di chi sta per vedere andare in pezzi il matrimonio. Non è la sola, tra le nostre attrici, che abbia saputo imporsi nel cinema transalpino. Basterebbe pensare a Monica Bellucci, o anche a Valeria Bruni Tedeschi, Anna Galiena, Isabella Ferrari, Chiara Caselli; ma bisogna riconoscere che lei porta nel film di Resnais un'aria speciale, insieme di casa e internazionale. Dice del personaggio: «Nicole all'inizio la vedevo un po' come la Lucy a fumetti dei Peanuts, prepotente e insopportabile. Sbagliavo, è una donna sola e infelice, che sta perdendo tutto. La pièce di Alan Ayckbourn parte come una commedia brillante, ma via via rivela il suo versante triste e malinconico, da anime alla deriva».
Splendida quarantenne madre di due figlie e sposata con un architetto, la Morante sembra vivere come un ricordo lontano la parentesi parigina accanto alla scrittore Barry Gifford. Passa da un set all'altro, senza problemi di lingua: recitando disinvoltamente in inglese, francese, spagnolo, oltre che in italiano. Inutile chiederle del film americano di Avati, che si chiamava Il nascondiglio delle monache e ora forse cambierà titolo. Ha promesso al regista bolognese di non aprire bocca, ma noi sappiamo che incarna una vedova uscita da una clinica psichiatrica e decisa ad affittare, con i suoi risparmi, una splendida palazzina per aprire un ristorante, non sapendo, o forse sì, che quarant'anni prima lì si consumò un triplice omicidio.
In controtendenza rispetto a tante colleghe, assicura di avere «una predilezione per i personaggi antipatici». Esempio? «La scena di Bianca che preferisco è quella in cui picchio i bambini. In ogni caso, io non scelgo i personaggi, scelgo i film». Con Resnais non ha avuto dubbi. «Lavorare su quel set è stato come un sogno. È un grande regista, eppure non ho mai conosciuto un uomo così umile. Molti fingono, si sforzano di apparire tali (non Moretti). Alain no: possiede una grazia speciale, qualcosa di fanciullesco, che illumina. Del resto, Zavattini non diceva forse che l'infanzia è una condizione dello spirito che si raggiunge solo a tarda età? Concordo. Mario Monicelli, a pensarci bene, è il regista più giovane col quale abbia lavorato».
Alla Mostra ormai è una habituée. «Non saprei dire quante volte sono venuta qui, ma ricordo benissimo la prima, nel 1981. Fu con Colpire al cuore di Gianni Amelio. Mi spedirono a una diretta tv e per l'emozione restai muta di fronte a tutte le domande». Oggi non è più così.

Assurta a icona di una certa sinistra cinematografica, ironizza perfino sul carattere drammatico di tanti suoi ruoli e non si vergogna più di abitare ai Parioli. «Però mi imbarazzo ancora quando mi chiedono che lavoro faccio. Ve la dico tutta: di rispondere “attrice” non mi viene proprio».

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