Morris, la scrittrice che era uno scrittore

Per 45 anni è stata maschio, da 38 è femmina. Le sue due vite fra guerre, libri, figli, amori. Ma senza mai cavalcare l’onda della diversità. Ecco il ritratto di una "scandalosa" normalità

Morris, la scrittrice che era uno scrittore

Sette anni fa aveva detto che quello sarebbe stato il suo ultimo libro. Si intitolava Trieste and the Meaning of Nowhere, ovvero il nessun luogo, il non essere, la città che meglio di tutte chiude in sé l’esilio e l’estraneità, la solitudine e la diversità, e che quindi più di tutte le somigliava. Aveva 75 anni, si sentiva un po’ stanca. L’anno dopo uscì A Writer’s House in Wales ma, si giustificò, raccontava la sua casa nel Galles. Poi fu la volta di A Writer’s World ma, disse, era un’antologia di viaggi... Con il successivo, Hav, la scusa fu che era un divertissement romanzesco...

Oggi Jan Morris di anni ne ha ottantadue e continua ancora a scrivere e a viaggiare. In mezzo secolo di attività, più d’un ateneo l’ha insignita di una laurea ad honorem, ha vinto molti premi letterari, collezionato onorificenze, scritto alcuni dei libri di viaggio più belli della letteratura anglosassone del Novecento: due sue «biografie di città», quelle su Venezia e su Hong Kong, non hanno rivali. Ma insuperabile rimane anche la sua trilogia sull’impero, Pax Britannica, che segnò una svolta negli studi sull’argomento. Il primo volume l’ha ora pubblicato da noi Il Saggiatore (Per volontà del cielo. 1837-1897. Nascita di un impero, pagg. 503, euro 24), cui si deve anche la traduzione di quello su Trieste (Trieste o del nessun luogo).
Per i lettori inglesi e americani Jan Morris è un mito, per la «tribù» degli scrittori d’Oltremanica e d’Oltreoceano un maestro riconosciuto. Secondo Paul Theroux «non c’è scrittore vivente che abbia la sua serenità o la sua forza». Eppure, il capolavoro di Jan Morris non è fatto di carta, ma di carne, non è artistico, ma umano. È la sua vita, anzi la sua doppia vita. Da James a Jan, da uomo a donna, da padre di cinque figli (tre maschi e due femmine, una purtroppo morta ancora bambina) a «zia» degli stessi, da soldato e esploratore (fu sua la corrispondenza dall’Everest per il Times, nel 1953) a padrona di casa, viaggiatrice delicata. Nel torrido clima italiano che vede transessuali e travestiti occupare la ribalta, con disquisizioni più o meno dotte quanto a ermafroditismo, androginia, sacralità della trasgressione, la sua doppia vita è una boccata d’aria pura. E invita a pensare.

Al Travellers, il club londinese di viaggiatori e diplomatici che sta in Pall Mall, i membri più anziani ricordano ancora il giorno in cui James Morris dovette dimettersi: uno dei requisiti per l’ammissione è essere maschi, se non altro all’anagrafe, e lui aveva cambiato sesso. Continua a frequentarlo come ospite ma, come socio, e già mi vergogno all’idea che io sì e lui-lei no, continuo a ritenere quelle dimissioni dovute una sciocchezza. Qualsiasi esperienza, qualsiasi viaggio, qualsiasi fatto straordinario raccontato dai suoi frequentatori che valore può avere rispetto a chi, con successo prima, con successo dopo, è vissuto due volte?

Conundrum, il mistero, l’enigma, è del 1974, e fra i libri di Morris è l’unico che per un trentennio non è stato più ristampato, per sua esplicita volontà. Racconta il senso di alterità rispetto al mondo, la ricerca di un tutto di cui far parte che è poi un unico che ti comprende e ti completa, la sfida a diventare ciò che vuoi, pur sapendo che non lo sarai mai completamente. È un libro coraggioso e tormentato, un’autobiografia persino crudele nel suo scandagliare ciò che si nasconde dietro una parola semplice e ambigua, per tutto ciò che si trascina dietro quanto a barnum esibizionistico, come transessualità. Certamente non è un libro facile, né per chi l’ha scritto, né per chi lo legge: comunica un senso di disagio, e non potrebbe essere altrimenti.

James Morris si accorge d’essere nato nel corpo sbagliato quando non ha ancora quattro anni. La madre suona Sibelius al piano, lui gioca e sente di essere una bambina. È il più giovane di tre figli, non è effeminato, non lo travestono da sorellina. Crescendo non ha inclinazioni omosessuali, ma quella sensazione si rafforza: «Sentivo che desiderando così fervidamente e insistentemente d’essere trapiantato in un corpo femminile miravo solo a una più divina condizione, a un’interna riconciliazione». Alunno a Oxford, impara che «non ci sono norme. Siamo tutti differenti. Nessuno di noi è interamente sbagliato. Capire è scusare». A 17 anni è volontario nel 9º reggimento dei Lancieri di sua Maestà: la Seconda guerra mondiale è agli sgoccioli, va prima in Italia, poi in Egitto, infine in Palestina. L’esercito, così come la scuola, in qualche modo lo proteggono: «L’intera vita delle classi alte britanniche era attraversata dalla bisessualità. Il sistema scolastico, il riserbo delle buone maniere, la felice tolleranza accordata agli originali di ogni tipo, tutti questi elementi significavano che le relazioni fra uomini erano piene di nuances emotive e sfumate».

Se la vita sociale è soddisfacente, quella fisica, sessuale, resta impervia. Non è un seduttore, non è seducibile, rimane tuttavia seducente e questo complica tutto per uno che non si sente uomo e però non è una donna, isolato dal suo sesso, impossibilitato a essere dell’altro. Il suo corpo non gli appartiene e il piacere che da esso potrebbe derivargli non lo attrae più di tanto: c’è in lui una sorta di atrofia che lo blocca, un non voler arrivare fino in fondo, fino al compimento. È un’impotenza che si rispecchia anche nel lavoro. A poco più di vent’anni Morris è in forza all’Arab News Agency del Cairo prima, inviato del Guardian poi, infine del Times. È un decennio giornalisticamente ricco, pieno di viaggi, di incontri. È in carriera, niente gli è precluso. E invece nel 1961, ad appena 35 anni, molla tutto, in nome di se stesso. Non è l’orgogliosa rivendicazione delle proprie capacità di scrittore, è il rifiuto di ciò che è canonico nel mondo maschile: il successo, la lotta per conquistarlo, la vita come scontro e come affermazione, l’ennesima vocazione alla solitudine, all’impotenza.

Si badi bene: è un’impotenza psicologica, non legata agli organi sessuali. L’atto fisico non lo attrae perché lo trova incongruo a ciò che lui sente di essere, qualcosa di meccanico inserito però nel motore sbagliato. E tuttavia, come corpo maschile, il suo è perfettamente oleato, assolutamente in grado di svolgere il proprio compito. L’incontro con Elizabeth, che sarà sua moglie per un ventennio, è allietato da cinque figli. Non è il tentativo di venire a patti con se stesso, di reprimere la femminilità che sente come propria. Elizabeth sa che James è in cerca di un’altra identità, James è conscio che il classico rapporto marito-moglie con lei è impossibile. E però c’è il potere della mente da un lato, l’idea di essere artisticamente artefice di una creazione dall’altro. Man mano che i figli crescono, l’insofferenza a essere ciò che è si fa in lui sempre più forte, la volontà di divenire la sua parte mancante sempre più preponderante.

C’è qualcosa di grandioso e di tremendo in questo viaggio dal mondo maschile al mondo femminile. In un decennio James prende 12mila pillole ormonali, 50mila milligrammi di femminilità entrano nel suo corpo: diviene prima un essere la cui età sembra essersi fermata, il fratello maggiore dei suoi figli, il figlio grande di sua moglie, poi una persona il cui sesso non è più realmente distinguibile, una sorta di chimera, di mostro mitologico, di divinità ermafrodita. A volte qualcuno lo fissa per strada e Tom, il primogenito, stringendogli la mano gli sussurra: «Sta fissando me», come a proteggerlo. L’ultima tappa è Casablanca, l’operazione per il definitivo e irreversibile cambio di sesso. Il nuovo nome, Jan, conserva ancora qualcosa di androgino, un tentativo di ancorarsi in quell’interregno di mutazione ormonale. Ma nella clinica James scompare per sempre e un nuovo essere compare al suo posto.

Dal 1971 a oggi Jan Morris è un’altra persona rispetto al James Morris che fu. Non lo è soltanto esteriormente, fisicamente. L’uomo che andava sull’Everest, che guidava i carri armati nel deserto, i motoscafi nella laguna di Venezia, è ora una donna che non sa parcheggiare la macchina, che si imbroglia a stappare una bottiglia, che fatica a portare un pacco. Lo scrittore capace di grandi squarci, di larghe prospettive, ha lasciato il campo a un narratore attento ai particolari, alle piccole storie, alla gente invece che alle idee. Ma come nei suoi libri, diciamo così, maschili, si coglieva una delicatezza, una passione, una profondità che non era del suo sesso, allo stesso modo in quelli «femminili» c’è un’asciuttezza, un lirismo virile e mai sdolcinato, una conoscenza dei lati oscuri del vivere che proviene da un altro genere. Gallese di nascita, l’essere nata in una regione di bardi, maghi, leggende, premonizioni l’ha in un certo senso aiutata nella «cerca» della propria identità. Ne ha colto l’aspetto sacrale, misterico, eroico, se si vuole, le ha permesso di sublimare una materia spesso corriva e a volte tragicamente ridicola. Ne ha fatto qualcosa di spirituale, di fortemente umano quanto a volontà, di potentemente divino quanto a desiderio. È riuscita a vivere compiutamente, fallibilmente, come’è nelle cose di noi tutti, ma felicemente, due volte.

A essere due distinte persone. Ne può essere orgogliosa.

L’anno scorso ha sposato nuovamente la moglie da cui quarant’anni prima aveva dovuto divorziare, ma che non aveva mai lasciato. «Volevo chiudere le cose in bellezza».

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