La morte in gabbia di Knut servirà alla libertà degli orsi?

La favola è finita. Male, come quelle di certe star di Hollywood. Perché Knut, l’orsetto che sembrava un peluche, era un divo: adorato, applaudito, fotografato, pure comprato, in forma di pupazzo o monetina o poster, ma soprattutto chiuso da quattro anni in un recinto nello zoo di Berlino. Prigioniero, Knut, della sua celebrità: tante cure ossessive e tanti flash non l’hanno salvato dal suo destino, anzi forse hanno solo accelerato la fine triste. Con polemiche, come succede alle star: ieri l’autopsia sul suo corpo ormai enorme, niente più a che vedere con quel batuffolo di pelo candido; poi il dibattito sull’opportunità di far vivere questi animali negli zoo, una discussione non nuova ma riaperta proprio dal suo caso.
La gente è sotto choc: i dipendenti dello zoo, i visitatori, il sindaco di Berlino. Tanti portano fiori e piccoli orsi e bigliettini. Come quando se ne va un mito. Questo era Knut, una Marilyn Monroe degli animali, troppo giovane, troppo amato e troppo fragile. I suoi simili vivono fino a quindici-vent’anni fra i ghiacci senza pietà dell’Artico, quelli in cattività arrivano a trenta-quarant’anni. Lui si è fermato a quattro. L’hanno trovato riverso nel laghetto della sua gabbia, seicento fan attoniti e sconvolti. Dicono sia stato il cuore a tradirlo. Knut, come Marilyn, è stato amato da tutti ma da nessuno. Perché la mamma l’ha rifiutato alla nascita, col fratellino gemello (che morì subito dopo, nel 2007). Tosca, così si chiama l’orsa, una ex femmina da circo della Germania Est, in realtà si sarebbe sbranata volentieri i due cuccioli, perché la specie è cannibale. Ma glieli hanno portati via e Knut è stato salvato dal custode dello zoo, Thomas Dörflein, che l’ha accudito e nutrito per settimane, dormendo accanto a lui con un biberon sempre sotto mano. Poi però il papà adottivo se n’è andato, tradito pure lui dal cuore, nel 2008. E da allora Knut è rimasto solo con la sua fama: troppi croissant, di cui era golosissimo; troppi applausi, da cui era ormai dipendente; solo una compagna, Gianna, un’orsa italiana che gli è stata tolta nel luglio 2010. E poi il ritorno di Tosca, la madre, con altre due giovani orse dispettose: tutte e tre, in quel recinto, si divertivano a tormentare l’unico maschio.
Lo zoo è una crudeltà inutile, lo zoo è soltanto una scusa per fare affari sulla pelle di Knut: questo dicevano già da tempo gli attivisti, che ora sono tornati alla carica, come spiegava ieri l’Independent. Certo lo zoo ha incassato milioni: un marchio registrato, gadget, visitatori a migliaia. Knut è perfino finito sulla copertina di Vanity Fair con Leonardo Di Caprio, fotografato da Annie Leibovitz. Per Knut lo zoo di Berlino ha pagato 430mila euro al centro di Neumünster, che ne rivendicava la paternità. Tutto ciò ha fatto bene all’orso? È vero che l’ha salvato dalla madre divoratrice, ma per quanto tempo? Questo si chiedono i critici. Anche perché la prigionia non è servita a farlo riprodurre, che è poi l’obiettivo di molti sostenitori degli zoo: tenere in cattività gli animali a rischio di estinzione, per aiutarli a moltiplicarsi. Un po’ come sulle Dolomiti, dove sono stati reintrodotti gli orsi, che ora però sono diventati troppi: tanto che ogni anno è caccia all’esemplare ribelle, troppo attivo fra pollai e allevamenti di pecore. L’ultimo è Dj3, che (una volta catturato) dovrà finire in un recinto riservato. Di nuovo rinchiuso, quindi, come l’orso di Berlino.

Knut era l’idolo dei bambini, la trovata di marketing, il sogno di un cucciolo salvato e diventato un principe. Poi è morto all’improvviso e ora è lo spot al contrario, la stella caduta, il simbolo che non funziona più. Perché adesso tutti si accorgono che Knut non è mai stato libero, e la gabbia dorata sembra solo una prigione.

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