Cronaca locale

"Moschea e Leonka vanno messi in regola: ma non è una resa"

di Anna Corradini Porta

Di ferie, quest’anno, il prefetto Lombardi ne ha fatte pochine. Milano gli è rimasta appesa alla giacca con tutti i suoi problemi, le sue aspettative, i mille casi irrisolti da risolvere e lui è dovuto tornare in città più volte, in pieno agosto. Quest’uomo, quieto ma risoluto, cordiale e di poche parole con una vena ironica sorprendente che in fondo rivela la sua napoletanità, sembra pronto ad affrontare la bagarre con la massima calma, com’è sua abitudine.
E non si pensi, come alcuni pensano, che dietro questa apparente disponibilità non ci sia la capacità di dire dei no risoluti, quando è il caso di dire dei no. Chi conosce bene Gian Valerio Lombardi sa che non ama le prese di posizioni forti, le decisioni che non tengano in considerazione ad ampio raggio gli interessi di tutti, i ragionamenti freddi che non contemplino umanità, comprensione e quando è il caso un minimo di pietà. E di tutte queste componenti il prefetto si farà carico di fronte ai grandi problemi che stanno per essere affrontati in questi giorni, dall’immigrazione, alle moschee per i musulmani, dal Leoncavallo, da sfrattare dalla sua trentennale residenza illegale o da accettare a certe condizioni, fino al difficile smantellamento dei campi rom abusivi che ormai tengono in scacco alcuni quartieri della città. Due lauree ottenute col massimo dei voti, in Giurisprudenza e in Scienze politiche, una moglie dolcissima col viso da bambina, professoressa di lettere, un figlio avvocato e una carriera tutta in salita, che gli ha dato grandi soddisfazioni, sono i punti fermi di una vita spesa fra famiglia e lavoro. Con un principio: «fare molto bene tutto quello che posso fare per il mio paese». Napoletano innamorato di Milano, Gian Valerio Lombardi siede sereno e senza tentennamenti nel grande ufficio della prefettura, in corso Monforte. Dalle finestre occhieggiano i rami ancora verdi degli alberi, alle sue spalle la bandiera italiana e quella europea, come si conviene. E lì che vado a trovarlo e lui ruba per me, un’ora al suo lavoro.

Prefetto, l’attende un autunno piuttosto caldo.
«Davvero. Una temperatura così erano anni che non si registrava» scherza.
Lei sa che alludo ad altro.
«Certo. Ma come avrà letto su tutti i giornali, ci stiamo dando da fare. E non creda che le faccende che dobbiamo affrontare siano di facile soluzione. Con il Leoncavallo per esempio, stiamo cercando una via per chiudere definitivamente questa storia senza creare problemi alla città. Perché è facile dire “buttateli fuori, hanno avuto gli sfratti eppure sono ancora lì“. Allora cosa facciamo? Passiamo alle maniere forti o conciliamo, troviamo una strada per rimetterli nella legalità? Io sono per la seconda soluzione, anche perché con la prima non sappiamo che reazioni potrebbe produrre e non mi sembra il caso che Milano abbia altre preoccupazioni. Diciamo anche che i leocavallini cercano a modo loro di collaborare, si impegnerebbero a pagare un congruo affitto annuale. Fermo restando, naturalmente, che rinuncino a qualunque atto di violenza, a qualunque azione che crei disagi alla città. E si impegnino a una politica più moderata».
Purtroppo ha il sapore di una resa.
«Capisco che può sembrare tale, ma non è così, è una strategia - a mio avviso -necessaria per risolvere questo tipo di problema. Se c’è qualcuno che ne conosce altre, scevre da inconvenienti, saremo lieti di esaminarle. Va considerato che i leoncavallini sono cambiati: forse non è cambiato il loro credo ma il modo di ragionare si. Non hanno più venti, venticinque anni, sono adulti, hanno creato all’interno del Leonka strutture di lavoro piuttosto valide, si preparano con dei loro progetti ad inserirsi nella realtà milanese, forse è il momento giusto».
È previsto quindi che se rimangono nella loro sede, in una nuova veste di legalità, paghino le tasse come tutti e rispettino ogni legge che regola il lavoro?
«Naturalmente».
Come mai per queste decisioni i tempi sono sempre così lunghi, è trent’anni che si parla del Leoncavallo?
«Bisogna mettere d’accordo troppe persone, tener conto di tante opinioni politiche e poi ci sono i giornali che soffiano sul fuoco. Una volta, quando a sovrintendere era solo lo Stato, tutto era più semplice, ora ci sono i comuni, le province, le regioni, mille piccole autorità che vogliono giustamente dire la loro e rendono il lavoro lungo e difficile».
La Lega crea problemi per la soluzione della vicenda?
«La Lega fa quello che deve fare e lo fa bene. Poi devono essere d’accordo il sindaco Letizia Moratti, il presidente lombardo Formigoni, gli assessori e i capi gruppo, veda lei. Letizia Moratti è abbastanza favorevole, ma pone giustamente dei paletti».
Voci di corridoio dicono che lei non la ami molto.
«Mi piacerebbe sapere di quali corridoi si parla, così frequentati e chiacchieroni. I corridoi della prefettura sono quasi sempre deserti. Lavoriamo negli uffici e non vedo nessuno in giro a dire stupidaggini. Il sindaco Moratti è una donna particolarmente in gamba, che ha tutta la mia stima e con la quale ho grande sintonia».
De Corato è uno che le gioca contro nella polemica intorno al Leoncavallo.
«Ognuno è libero di dire come la pensa. Probabilmente non è d’accordo con la mia opinione. Ma siccome il problema dell’esecuzione giudiziaria esiste sarei lieto di ricevere ulteriori proposte».
Vogliamo adesso parlare dei campi rom? È vero che si vogliono costruire delle case da regalare ai nomadi?
«Per ora non si è costruito niente e non si è regalato niente. Stiamo invece smantellando i campi abusivi dove bisognerebbe che veniste a vedere come vivono queste famiglie. Parlare di orrore è poco, ci sono bambini che sguazzano nella sporcizia più totale, fra topi e scarafaggi, senza i minimi principi igienici. Spesso non c’è luce né acqua, e molti di loro sono italiani. Quindi tutto difficile da gestire. Me la prendo quando dicono che non si è fatto niente, io nei tre anni e mezzo del mio mandato ho fatto abbattere decine di campi abusivi, mentre prima di me non mi risulta ne sia stato smantellato alcuno. Come ben sa, perso il loro campo i rom nel giro di pochi giorni ne costruiscono un altro e poi ancora un altro. A questo punto la soluzione è una regolamentazione da parte del governo di questo problema. Con i rom che lavorano e che guadagnano e ce ne sono, ci si può accordare per una soluzione ma solo al fine di non far sorgere nuovi campi. Non vedo altra soluzione che sistemarli, imporgli regole e leggi e controllare da vicino che le rispettino».
Mi chiedo perché si fa tutto questo per i rom, che poi sono quelli che riempiono le pagine della cronaca nera con le loro gesta e non ci si preoccupa mai dei cingalesi, dei filippini, dei portoghesi, degli ecuadoriani. Nessuno ha mai chiesto loro se hanno bisogno di qualcosa?
«Gli immigrati che lei ha citato si muovono in modo diverso, hanno spesso l’appoggio di un parente che è già in Italia da tempo, trovano più facilmente lavoro, hanno una storia meno travagliata e caratteri diversi. Nelle mie decisioni, comunque, non riesco ad essere totalmente freddo e a lasciare da parte il cuore, di fronte al degrado dei bambini rom che non hanno nessuna colpa, io penso a una soluzione umana, non all’accondiscendenza, intendiamoci, ma a una fermezza venata di comprensione».
Siamo arrivati a un altro punto cruciale, le moschee.
«Il discorso è lo stesso. Queste persone continuano a pregare per le strade, nei garage, nelle piazze, in mezzo al traffico, sotto casa dei milanesi che per uscire devono fare lo slalom Risolvere il problema è compito della politica territoriale. Io mi rimetto alle decisioni della politica, come è giusto che sia. Mi sono semplicemente limitato a segnalare un inconveniente oggettivo».
Le ultime vicende delle due ragazze uccise dai padri, non danno l'idea che li si possa integrare facilmente e che vogliano essere integrati.
«Non tutti i musulmani sono così, c'è tanta brava gente che lavora, si inserisce bene nel tessuto sociale e non crea problemi. Come sempre bisogna saper distinguere».
Lei è d’accordo con i respingimenti?
«Si, quando è necessario. Non possiamo accogliere tutti, soprattutto i clandestini. Ma ci devono essere accordi chiari con i paesi di provenienza e bisogna sapere esattamente questa gente da dove viene.

Lo sa che stracciano i documenti, si bruciano i polpastrelli per non farsi prendere le impronte digitali e i brasiliani, per esempio, devono firmare che sono d’accordo di rientrare nel loro paese altrimenti il Brasile non li accetta? Moltiplichi questi problemi per le migliaia di clandestini che abbiamo nel nostro paese, i quali, sia ben chiaro, non arrivano soltanto via mare, ce ne sono molti che entrano in Italia via terra, si intrufolano nelle nostre città e di loro spesso non si sa più niente».  

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